È ancora valido il detto «errare è umano?». I social media ci perdonano qualcosa? Secondo l’esperta Amy Edmondson bisogna «detossificare» il fallimento: «Sbagliare è necessario per progredire» Paolo M. Alfieri In un mondo che tende a respingere tutto ciò che è imperfetto e che devia dalla presunta “norma-lità”, ci è ancora consentito sbagliare? E quanto possiamo davvero mostrare i nostri errori? Quanto ci viene socialmente “perdonato”? Per Amy Edmondson, docente alla Harvard Business School e apprezzata leader globale tra gli studiosi di management, è molto semplice: dobbiamo assolutamente «detossificare il fallimento». Di più: « Il fallimento è parte della vita, è addirittura qualcosa da ricercare – spiega a L’Economia Civile in collegamento da Boston –. Perché se vuoi avere successo nella vita, nel lavoro, nello sport, devi essere in grado di accettare tutto ciò che è nuovo e i cui risultati, la prima volta, potrebbero non essere quelli previsti».
Facile forse a dirsi, molto meno a farsi, in un’era in cui i social network espongono come mai prima d’ora le vite di tutti al pubblico giudizio. E, spesso, al pubblico ludibrio. «Per i loro meccanismi i social network sembrano non perdonare nessuno – spiega Edmondson –. Sulle piattaforme il “male”, o meglio i post negativi, diventano facilmente virali. In psicologia, d’altronde, l’interesse per il male viene ritenuto più attrattivo rispetto a quello per il bene. E in questo senso i social creano un territorio pericoloso, in cui il fallimento può essere ampiamente diffuso e pubblicizzato. È un contesto di cui dovremmo essere molto consci: forse dovremmo prendere molti rischi nella nostra vita, ma non dovremmo prenderne così tanti sui social. Peraltro, siamo tutti portati a pensare che le vite degli altri siano più interessanti delle nostre, perché ognuno cura i propri post con le migliori foto, come quelle delle vacanze e dei successi sul lavoro, mentre si condividono molto di meno i problemi. Questo porta a una percezione erronea della nostra situazione e, soprattutto nei giovani, può produrre crisi mentali».
Da anni, Edmondson studia le persone e le organizzazioni che attraverso il loro lavoro cercano di generare impatti positivi sul mondo. Il suo ultimo libro, Il giusto errore (edito in Italia da Egea), è una sorta di manifesto del fallimento positivo. Ma errare è ancora considerato umano? «Siamo fallibili e commettiamo errori, certo, ma possiamo correggere i nostri errori per prevenire i fallimenti», osserva Edmondson. Ma come possiamo fare in modo che sbagliare abbia effetti positivi sulla nostra vita? «Sbagliare non è un bene in sé, ma è a volte necessario quando ci troviamo in acque inesplorate e dobbiamo sperimentare per perseguire un progresso, e questo in quasi tutti i campi che possiamo immaginare, dallo sport alla scienza alle amicizie – evidenzia l’esperta –. Non tutti gli esperimenti si traducono in un successo. Alcuni mostreranno che c’erano delle ipotesi non corrette e si tradurranno in un fallimento. Ma dobbiamo imparare ad accettare l’importanza delle nuove conoscenze che questi errori portano con sé, se non con piacere quanto meno con l’entusiasmo per ciò che stiamo apprendendo».
E le scuole insegnano (anche) a sbagliare? Per Edmondson occorre intanto fare una distinzione: «Un errore è una deviazione da un processo conosciuto: avevamo la conoscenza ma non l’abbiamo usata in maniera appropriata. Il fallimento può essere questo ma può anche essere il risultato indesiderato di un esperimento intelligente, di un’ipotesi. Non tutti i fallimenti sono errori e non tutti gli errori producono falli-menti. La maggior parte delle scuole non prepara gli studenti ad accettare la necessità di fallire in acque inesplorate, la centralità del fallimento nel progresso. Tutti i bambini che provano ad andare in bicicletta, a un certo punto imparano a farlo. Prima, cadono diverse volte, ma quando imparano, ottengono quella meravigliosa libertà: è un processo intuitivo e un’esperienza per cui vale la pena commettere dei fallimenti. E lo stesso è quando si prova a imparare la matematica o una nuova lingua o qualsiasi altra cosa». Edmondson – che per ben due volte, nel 2021 e nel 2023, ha ottenuto il primo posto nella classifica globale Thinkers50 dei migliori studiosi di management – sottolinea che «negli Stati Uniti, nel mondo degli affari, il clima è più aperto ad accettare il fallimento. C’è questa tendenza, nel mondo imprenditoriale, a pensare che se non hai avuto un fallimento non sei ancora un buon investitore, perché non hai imparato ancora abbastanza, o perché non sei stato audace abbastanza. Anche le nostre leggi sulla bancarotta non sono troppo dure. Eppure sì, chiunque vuole essere un vincitore, chiunque vuole il successo, è una cosa che accomuna tutti gli esseri umani, mentre tutti noi abbiamo delle piccole reazioni emotive negative davanti al fallimento».
I fallimenti, peraltro, non sono tutti uguali. «Ci sono quelli elementari e quelli complessi – osserva Edmondson –. Quelli elementari avvengono quando siamo in un territorio familiare, quando dovremmo soltanto seguire un procedimento e, a causa di un singolo errore, produciamo invece un fallimento facilmente prevedibile. Banalmente, quando scriviamo un messaggio al cellulare mentre siamo alla guida e causiamo un incidente. I fallimenti complessi si verificano a volte in un ambiente a noi familiare a volte in contesti nuovi: sono quelli in cui è la combinazione di un insieme di piccoli errori a produrre, infine, un fallimento. È quanto accade a volte negli ospedali, dove cinque-sei piccoli errori si uniscono fino a causare problemi gravi a un paziente, oppure pensiamo al fallimento relativo alle catene di fornitura durante e dopo la pandemia».
Edmondson identifica infine negli scienziati i veri professionisti del fallimento «intelligente». « Fallire è ciò che fanno per tutta la loro vita, consapevoli che non tutti i loro esperimenti finiranno con un successo. Ma gli scienziati sanno che se vuoi essere un pioniere hai necessariamente bisogno di accettare il fallimento lungo la strada». E allora, non resta che imparare da loro.
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