Il tasso di immigrazione netta nel Regno Unito viaggia verso quota un milione. L’anno scorso era esattamente la metà. Lo dicono le previsioni del ministero degli Interni che verranno confermate (o smentite) la prossima settimana dall’ufficio statistico. Dati scomodi per il governo di Rishi Sunak che a ottobre scorso si era impegnato a portare il saldo migratorio entro l’ordine delle decine di migliaia. Promessa fatta (e non mantenuta) anche da altri premier conservatori come David Cameron e Theresa May.
Il fenomeno è solo in parte legato alle emergenze umanitarie che hanno innescato arrivi da Kiev, Hong Kong e Kabul. A incidere in modo consistente sono i visti rilasciati ai lavoratori specializzati e agli studenti non europei. Se la stima verrà validata l’immigrazione netta risulterà essere tre volte quella registrata nel 2016 alla vigilia del referendum sulla Brexit. L’esecutivo correre ai ripari valutando, per esempio, restrizioni sui visti per i familiari degli universitari stranieri che frequentano i campus britannici.
Più difficile è intervenire sulla forza lavoro di cui, è noto, l’isola ha estremamente bisogno. Il ministro degli Interni, Suella Braverman, ha tentato di scaricare su Sunak la responsabilità del problema chiedendogli politiche che incentivino i britannici (»dobbiamo sbrigarcela da soli», ha insistito) a lavorare come autisti, raccoglitori di frutta e macellai. Manodopera prosciugata proprio dall’esodo della Brexit. In un’intervista alla Bbc, ieri, l’euroscettico Nigel Farage ha ammesso: il divorzio dall’Ue è stato «un fallimento» Colpa del governo Tory, ha aggiunto, che «non è stato capace di trarne i benefici»
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