Il ministro per gli Investimenti, Khalid al-Falih, ha reso noto che a partire dal 2024 non sarà più possibile per le società straniere che abbiano sede in uno degli stati della regione del Golfo Persico stringere accordi con l’Arabia Saudita. La norma riguarderà tutte le società che puntano a siglare contratti sottoposti al vaglio dal Ministero delle Finanze, ma non riguarderà quelle quotate in borsa, fossero anche controllate dallo stato. Secondo il ministro, l’obiettivo sarebbe di eliminare le “perdite economiche” e far sì che le società che vogliano fare affari con il regno vi trasferiscano almeno la sede.
L’annuncio arriva un mese dopo la riunione annuale di Davos, per la prima volta in videoconferenza a causa del Covid, durante il quale ben 24 colossi internazionali hanno dichiarato che intendono spostare la loro sede regionale nell’Arabia Saudita, tra cui Deloitte, Bechtel e PepsiCo. Sempre il ministro ha escluso che la misura sia mirata a contrastare la leadership commerciale degli Emirati Arabi Uniti, stretto alleato di Riad. Ma è evidente che sia così.
Dopo la crisi del petrolio seguita al picco toccato nel 2014, Riad è diventata consapevole che non potrà confidare ancora a lungo ed eccessivamente su questo settore. La disoccupazione nel paese è al 15% e solo il settore privato potrà creare posti di lavoro per farla diminuire. L’apertura alle libertà civili è legata proprio alla necessità del regno di incentivare uomini e donne a lavorare, contemporaneamente tagliando loro i sussidi con cui per decenni è stata garantita a tutti una vita quasi gratis grazie ai proventi petroliferi. La quotazione di Aramco in borsa era servita poco più di un anno fa proprio a segnalare la svolta, rendendo la compagnia petrolifera statale sempre meno la gallina dalle uova d’oro a cui attingere per mantenere i sudditi e sempre più una realtà privata gestita secondo criteri puramente aziendali.
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