“Dano, dano, dano il rotto porta il sano”

by • 1 dicembre 2024 • In evidenza, SOCIALECommenti disabilitati su “Dano, dano, dano il rotto porta il sano”11968

Ciro Alvino, nato ad Atripalda (AV) il 26.01.1941, laureato in Scienze del Servizio Sociale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è Esperto in metodologie e tecnologia dell’educazione.
È autore del romanzo «La Gelsa», una sagace opera d’introspezione esistenziale e psicologia, della «Leggenda dell’uomo-cipresso», del romanzo «Il Patto fatale», della fiaba di «Tristino», e «Il Pulisci muri»…



A mia madre anche per le poche e tante fiabe raccontate.





















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La leggenda dell’uomo-cipresso è la vicenda di un cuore sensibile che ha avuto la capacità di riprendere a battere dopo un’imprevista malevola fermata.
di Ciro Alvino

Nella mia primavera volavo, tale e quale a una meravigliosa “Vanessa Io”, da un fiore all’altro succhiando nettare finché non moriva il giorno. Ma quando il Sole cedeva il posto alla Luna e alle stelle, e i fiori serravano i loro petali, mi addormentavo nell’attesa del nuovo giorno – che giungeva senza che nessun essere vivente muovesse foglia – conscio che ai primi raggi del Sole quei petali si sarebbero dischiusi.

Ma proprio quelli del fiore dei miei sogni, un giorno fatale, sì dischiusero per un’altra farfalla ed io ruzzolai nella disperazione nera e lacerante.

Da quel momento tutti i fiori di Gaia mi apparvero in bianco e nero, e smarrii la passione e la forza di volare.
Con tale disinteresse, andai tra i fiori senza degnarli d’attenzione, più di tutto, perché avrei voluto sapere:

• da dove venivo;
• dove andavo;
• che significato aveva la mia esistenza e come si conquista “La felicità”.
E poiché i fiori si limitarono a sganasciarsi dalle risa, rivolsi dunque il quesito:

• al Sole;
• alla Luna;
• ai pesci di un azzurro laghetto di montagna.

Il Sole però si scompisciò dalle risa,ma non mi rispose.
La Luna sembrò intrigarsi, ma era nel quarto dello stupido, i pesci si sbellicarono dalle risa, poi si spostarono con foca senza rispondermi.

D’impulso mi tuffai nel laghetto, li rincorsi e gli chiesi di nuovo:
“qual è il senso della vita? E come si conquista La felicità?”.

La felicità?” Sostené il loro capofamiglia divenuto assai rattristato,
La felicità”, amico mio, si conquista realizzando i doveri dell’uomo:
“Favorire la continuazione della vita, e lasciare al meglio ciò che ha trovato nascendo””.

E poi seguitò:
qualunque pianta per godere “La felicità”, crea frutti saporiti, invitanti, e belli per offrire ad almeno uno dei suoi semi di germogliare nuova vita”.

Germoglia anche tu e scoprirai lo stratagemma per conquistare “La felicità”!

Dopo queste parole il capofamiglia mosse le pinne, agitò la coda, sì scompisciò di risate, e pieno d’orgoglio si allontanò scortato dai suoi dieci pesciolini e una graziosa pesciolona.

Sentii allora l’irrefrenabile desiderio di germogliare nuova vita, e divenni tutt’uno con un incantevole cipresso, tal quale a quello del mito di Cipararriso, raccontato molto bene da Ovidio nella Metamorfosi del “Giovane” di eccezionale bellezza il cui corpo fu trasformato, dal Dio del Sole, Apollo, suo paladino, in un cipresso, e da quel momento ne prese il suo nome – affinché potesse piangere tutta la vita accanto al suo magnifico cervo che lui aveva ucciso con una fatale treccia, e ai tanti cipressi di Vincent van Gogh, pitturati per evidenziare in modo grandioso il collegamento che i cipressi creano tra cielo e la terra.

Con gli aghi sempre verdi traspirai acqua e tanti sali minerali con la viva consapevolezza di produrre semi.
Ed ero felice assai, alla fine sapevo dov’era “La mia felicità” e non ero più solo, giacché nella corteccia trovavano rifugio tanti insetti, ai piedi abitavano lombrichi e conigli, e nei nidi, creati sui rami, dimoravano tanti e tanti uccelli.

Avevo desiderato di essere una pianta più di una volta giacché:
• comunicano solo con il linguaggio del cuore;
• sono sincere;
• non tradiscono;
• sanno tenere la bocca chiusa;
• sono piene di pace, di forza e di dignità e creano tanto muschio perché non si muovono mai.

Nel frattempo giunsero alle mie radici alcuni semi d’edera non velenosa.
Li accolsi come se fossero miei, e gli fornii nutrimento e l’umidità per la germogliazione.

Che tenerezza suscitarono in me quelle piantine da seme e le loro prime foglioline verdi.
Per proteggerle dall’ingordigia delle capre, e per carezzarle, le coprii con dei rami penduli.

Con fiducia le aiutai ad aggrapparsi alla corteccia e gli fornii la linfa vitale per farle crescere.
Le radici dell’edera però penetrando nel tronco svilupparono ramificazioni tanto rigogliose da occultare finanche la luce del sole, e limitare la fruttificazione e la presenza di uccelli.

Prova ne sia, che sentivo assai la scarsezza dei loro cinguettii, ebbi voglia di morire,
ma reagii con vigoria.

Per punire l’edera avrei voluto ordinare agli aghi di dismettere la funzione clorofilliana, la traspirazione e la respirazione pur sapendo di provocare così, anche la mia morte.
Lei però, non mi avrebbe tradito, e sarebbe stata addirittura dolce e fedele.
E già vedevo i taglialegna procedere:
• al mio abbattimento;
• al taglio dei rami;
• alla sezionatura del fusto;
• all’eradicazione dell’edera e all’invio, in segheria, delle parti pregiate del fusto e dei rami principali.

E già vedevo, con la fantasia:
• le tavole trasformarsi in comodi letti, banchi di scuola, librerie, cattedre…;
• i rametti mutarsi in cenere per concimare gli orti;
• l’avvizzimento dell’edera eradica;
• la segatura ammassarsi e riempire i giocattoli di pezza, per pulire i pavimenti e le radici organizzarsi per generare funghi gustosi.

Ma l’apprensione che delle tavole potessero essere utilizzate, per la costruzione di casse per defunti, – stante la tradizione egiziana, romanica e orientale, e l’incorruttibilità, e l’immortalità del legno di cipresso – m’indusse tanto panico da incitare gli aghi a intensificare le loro funzioni, sicuro che qualcuno, mosso a compassione sarebbe, prima o poi, venuto a liberarmi.

Con tale speranza nel cuore e nell’anima, cominciai ad andare avanti negli anni, e assunsi sempre più, quell’aspetto maturo e serioso che si osserva in tutti i cipressi quando rimpicciolendosi il dono della fruttificazione, si tuffano nella tristezza e nell’avvilimento, moderano la vigoria e rischiano d’essere preda dell’edera.

Non persi del tutto l’eleganza del cipresso e la voce melodiosa.

E solo in lei trovavo qualche momento di pace diffondendo nell’aria soavi e dolci armonie.

Un bel giorno però, una giovane donna, tanto meravigliosa e bella che:
• sembrava esser assai sicura di sé;
• aveva l’aspetto felice;
• vestiva con un’eleganza che si armonizzava ai suoi lineamenti fini e sensuali, occhi vivi, capelli scarmigliati che le accarezzavano il volto, sorriso disarmante, caldo e smagliante, carnagione vellutata, voce suadente e ammaliante e aspetto che più incanta nelle donne, passò nei pressi delle mie inconsuete radici, prova ne sia che non arrivano molto in profonditi nella terra, ma si diffondono al di sotto del terreno e non provano dissesti, sì fermò attratta da una forza sconosciuta.

Ammirando le movenze sinuose mi struggevo al solo pensiero che poteva essere di un altro,
e le dedicai la più bella canzone d’amore scritta per lei.
La giovane donna alzò lo sguardo alla ricerca della fonte della voce, e sentì, con un’improvvisa fitta al cuore, nuovi desideri e nuovi sogni agitarsi dentro di sé.

Osservando gli occhi verdi con pagliuzze dorate, capii che mi trovavo davanti a una donna perfetta, e anche lei, senza alcun bisogno di parole, doveva essersi convinta di aver trovato l’uomo-cipresso ragion della sua vita.

Ne ero sicuro, perché nel mondo v’è sempre qualcuno che divieni un uomo-cipresso per cercare la donna perfetta che esiste per davvero e basta solo cercarla.
E quando i due sognatori s’incontrano e i loro sguardi s’incrociano ha importanza solo il presente.

Peccato però che il destino avesse incrociato le nostre vite soltanto dopo che io mi ero lasciato turlupinare dal fiore e dal pesce, e lei si era fatta carico di tante remore.

Ohimè, perché ero stato così cieco e candido ad aver fiducia del pesce padre e dell’edera?
Per davvero sapevo così poco della vita?

No. No.
Anche allora presagivo che non dovevo aver fiducia dell’edera, ma era prevalsa, “come sempre”, l’incondizionata fiducia nel prossimo.

E ora che avevo trovato La felicità, io ero un uomo-cipresso e lei, donna intelligente e gioiosa, non poteva corrispondermi.

Non riuscendo a rassegnarmi al reiterato supplizio rinunciavo alla vita e le ispiravo nuova compassione.
E tanto triste e infelice le apparivo più era incantata dalla mia voce modulata, prova ne sia che si appoggiò al tronco ruvido ancora non coperto dall’edera ed io mi sentii rabbrividire,
ma anche lei, divenuta “cuor di ghiaccio” soltanto per le delusioni della vita, sentì il medesimo brivido, tant’è vero che mi chiesi cosa le stava accadendo?
Perché sentiva l’irrefrenabile istinto di fondersi con l’uomo-cipresso?

Tremai, senza fiatare, dalle radici fin nella chioma per l’incontenibile desiderio di sfiorarla e fondermi con lei in un abbraccio che essendo più intimo del bacio sarebbe stato il luogo perfetto per:
– far parlare i cuori;
– trovare amore, protezione e pace;
– favorire la produzione dell’ormone della felicità;
– rafforzare il sistema immunitario…
ma conoscendo la mia grama vita e figurandomi la sua tenace voglia di vivere non avrei potuto permetterle di chiudersi, così per sempre, nell’uomo-cipresso.

E giacché nella nuova veste non è consentito di amarci senza perdere tutto, le offrii e lei accondiscese d’essere eterni insieme almeno nell’aldilà e per l’eternità e di venire nei pressi miei almeno una volta al giorno per:
– donarmi un sorriso;
– ascoltare la sua voce che è dissimile dal linguaggio dei fiori;
– udire il suo cuore che è diverso da quello delle altre donne, che sono belle, ma sono vuote e non si può morire per loro.

Da quel momento vivo solo per rivederla.
E quando lei non viene rivivo le immagini sue per non rimanere inquieto e agitato fino il giorno dopo. E mi rincuoro accarezzando l’unico capello suo rimasto impigliato nella corteccia. Ma se l’anelato venir le fosse impedito non rimarrebbe che stare in attesa fino al cessar delle mie forze e poi chiedere a tutti santi del paradiso di congiungerci almeno nell’aldilà.

Anche su questa trottola, che gira intorno al suo asse e intorno al Sole, però non rinuncerò alla speranza di rapirla per liberi voli in aere serene, per corse spensierate, a piedi nudi, sulla battigia di un calmo e azzurro mar, per balli incantati, per rivedere la vita a colori e per mutarmi in:
acqua per lavarla;
vento per asciugarla;
aroma per profumarla;
pettine d’osso per giocherellarle i capelli;
fuoco per riscaldarla;
cibo per alimentarla;
diamante per adornarla;
sottana in seta per fasciarla e appropriarmi del profumo e della calma del cuore;
Stella polare per guidarla e proteggerla dalle insidie che le saranno frapposte nei moti di rivoluzione che ancora avrà da compiere intorno al sole;
in un uomo piacevole per carpirle almeno un tocchetto d’amore.

Ma essendo indubitabile che “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole…” lei in men che non si dica, è stata rapita e portata altrove,

Se lo stato d’infelicità dell’uomo-cipresso e della giovane donna, dal sorriso di Sole, ha avvinto anche voi, gente di cuore, maestra dell’arte dello strappare sorrisi nei momenti più bui e tristi, vengo a chiedervi – sapendo che vi è tuttora del buono in coloro che vivono su Gaia – di aiutarmi a dimostrare che lei è esistita per davvero, e a invocare Dio affinché ce la ridia.

Mancherei di dignità, però se non vi dicessi che appena prevale in me il dubbio di averla ideata solo per alleggerirmi il peso degli anni e le cocenti delusioni della vita, lei corre a biasimarmi, ribadendomi:
“Pezzo di rimbambito…
non capisci che considerandomi frutto di fantasia mi neghi il diritto alla vita dopo avermi negato l’amore!
Io ho vissuto lì e con te, e vivo ancora, ma in un’altra dimensione, prova ne sia che non vi è alcun mistero”.
Così statuendo dissolve i miei dubbi e mi ripropone – con quel suo fisico ben proporzionato, quel taglio degli occhi grandi e perfetti e quello sguardo dolce e seducente – il déjà vécu di quando mi sfidava a compiere il gesto elementare di amarla e che tuttavia mi riusciva impossibile.

Tant’è vero che mi confermavo, fino alla fissazione:
• non avrai mai più questa presenza così vicina;
• non ti si offrirà un’occasione altrettanto favorevole almeno per carezzarla;
• non vedi che la voglia d’esser amata da te prorompe da ogni poro della mia pelle!;
• lei ti ha sempre cercato e ora che ti ha trovato non vuole perderti, perché tu dunque non riesci neppure a stringerla al tuo petto?
Come mai non ci stai neanche tentando?
Possibile che non hai ancora capito che il tempo va afferrato e adoperato quando si è ancora in tempo?

E si ripresentò:
• l’ipocrita timidezza che associata alla paura di sciupare l’amore che nutrivo mi pietrificava corpo e anima;
• l’amarezza che provavo e che avrei continuato a provare fino alla morte;
• l’assillo di perderla per sempre.

Eppure, chissà forse:
• sarebbe bastato allungare un dito per non trovarmi nell’afflizione che giorno dopo giorno si muta in crepacuore, proprio come aveva presagito lei;
• eravamo troppo perbene noi due;
• eravamo assai consapevoli che amarci più della vita, non sarebbe stato un peccato, tutt’al più lo sarebbe divenuto dal momento che la felicità d’altre persone sarebbe stata lesa dall’egoismo della nostra passione…

E poiché non conoscerò mai le vostre deduzioni sulla leggenda dell’uomo-cipresso, vengo a pregarvi di non considerare i cipressi come rappresentanti del culto dei morti, ma come pianta legata alla bellezza e all’importanza della vita legata ai sentimenti d’amore e non più come sentinelle dell’eterno riposo.
Se la mia preghiera sarà accolta da voi, avrà poca importanza se dovesse insorgere in voi il dubbio che la “Leggenda dell’uomo-cipresso” non è la mia leggenda, ma pura, fantasia.

Ciro Alvino nato ad Atripalda (AV) – laureato in Scienze del Servizio Sociale e figura atipica che ha capovolto lo stereotipo del burocrate, per la sensibilità e l’amabilità di indole e animo.

La Gelsa” (nel 2011) è stata la sua prima opera edita così accolta, tra gli altri, da Francesca Festa della La Domenica del Corriere del “Corriere dell’Irpinia.
“Quando ho preso in mano “La Gelsa” mi sono subito detta: “sarà il solito libro sul bombardamento in Irpinia nel 1943”. Dopo le prime pagine ho intuito che mi trovavo di fronte ad un abile e facondo scrittore che ha deciso saggiamente di affrontare un già molto battuto tema storico in modo del tutto sorprendente”.
In sintesi, per Francesca, La Gelsa è un bel romanzo ambientato in Avellino e che parla di Avellino riuscendo a scrivere di storia senza farcene accorgere, facendoci ingoiare l’amara, seppur necessaria pillola del ricordo indorandola con la delicata storia, arricchita di una forte esperienza trans ferale, tra un uomo in crisi con se stesso ed un’analista vittima a sua volta dei dolori della vita.

Il Patto fatale” – romanzo di un inimmaginabile patto escogitato da due amiche desiderose di portarsi a letto l’amabile maniscalco della Cittadella del sole, ma concretizzato solo da una neo-efesina ingaggiata a hoc per farlo cadere nelle sue braccia e avvezzarlo all’infedeltà coniugale per poi cederlo alle amiche – sarà pubblicato a breve.

Con la pubblicazione della “Leggenda dell’uomo-cipresso” egli ha superato se stesso dandoci un ulteriore prova del dovere di non soccombere ai fallimenti che la vita propina a pieni mani sulle nostre vite.

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