In attesa di capire quale sarà lo sbocco di questa crisi politica, che sta vedendo tramontare il secondo governo Conte dopo appena 16 mesi dalla sua nascita, si ripropone maledettamente in Italia il tema della stabilità. E come vedremo, non è un aspetto che riguarda solamente la sfera istituzionale, perché i frequenti cambi di governo sono un male per l’economia.
Quest’anno, celebriamo i 160 anni dell’Unità d’Italia. E sapete quanti governi ci sono stati in questo poco più di un secolo e mezzo? 131! In media, ciascun esecutivo è durato meno di 15 mesi, cioè neppure un anno e tre mesi. L’unica fase di stabilità si ebbe, guarda caso, durante il fascismo. Ma eravamo sotto dittatura. In effetti, il presidente del consiglio, Benito Mussolini, rimase in carica per quasi 21 anni. Al netto di quella esperienza, la durata media scenderebbe ulteriormente a meno di 13 mesi, poco più di un anno. Il tempo per capire cosa si stia andando a fare, insomma.
Per il resto, gli unici esempi repubblicani di premier relativamente duraturi sono stati Alcide De Gasperi con il monocolore Dc tra il 1948 e il 1953, Silvio Berlusconi tra il 2001 e il 2006 e Bettino Craxi tra il 1983 e il 1987. In altri termini, il meglio che siamo arrivati ad ottenere è stato un premier che sia durato per l’intera legislatura.
Prendiamo gli ultimi 30 anni: in Italia si sono succeduti 12 premier diversi in 17 governi, con Silvio Berlusconi ad essere entrato a Palazzo Chigi per 3 volte e Romano Prodi e Giuliano Amato per 2, mentre Giuseppe Conte è passato allegramente dal guidare una maggioranza “giallo-verde” a una “giallo-rossa” nella medesima legislatura, unico caso nella storia repubblicana.
Nello stesso periodo, la Germania ha avuto solamente 3 cancellieri, il Regno Unito 6 primi ministri e la Francia 5 capi di stato.
Cosa c’entra tutto ciò con l’economia italiana? Tutto. L’andamento di un’economia è il frutto di scelte decisionali che vengono adottate dai governi nazionali, oltre che sempre più dalle istituzioni sovranazionali. Ogni scelta lungimirante comporta per un governo costi politici immediati sul piano del consenso, che vengono ripagati negli anni dai benefici che essa ha generato per l’insieme dell’economia. Ad esempio, se taglio la spesa pubblica per ridurre la tassazione sulle imprese, inizialmente mi ritroverò contro i soggetti che si sentono danneggiati dalla misura, come dipendenti pubblici e percettori di sussidi. Tuttavia, quando nel tempo il taglio delle tasse creerà nuovi posti di lavoro, maggiore gettito fiscale, crescita economica e la conseguente possibilità per lo stato di aiutare le famiglie più in difficoltà, verrò ripagato per gli sforzi profusi e magari ottengo un nuovo mandato.
L’impatto devastante sull’economia
Ma se ogni premier italiano sa prima ancora di insediarsi di avere pochissime probabilità di arrivare fino alla fine della legislatura, anzi di durare più di un paio di anni, perché mai dovrebbe screditarsi agli occhi dell’opinione pubblica con misure politicamente costose? A quel punto, rinuncerà a programmare, consapevole che non sarebbe colui che raccoglierebbe i frutti delle sue riforme strutturali. La Nazione rimane in balia degli eventi, senza alcuna direzione e con problemi che si procrastinano di decennio in decennio per l’assenza di soluzioni adottate. Da qui, l’approccio sbrigativo che da inizio anni Novanta le istituzioni di Roma hanno adottato a più riprese per cercare di superare l’impasse: i governi tecnici. Ne abbiamo avuti tre in 20 anni: Carlo Azeglio Ciampi tra il 1993 e il 1994, Lamberto Dini tra il 1995 e il 1996 e Mario Monti tra fine 2011 e il 2013. Adesso, se ne invoca un quarto da più parti nella figura di Mario Draghi.
I governi tecnici hanno, però, deresponsabilizzato la politica, rendendola ancora meno credibile agli occhi dei cittadini e allentando quel vincolo di fiducia che dovrebbe unirla con essi. Per calcoli di parte, nessuna legislatura è mai riuscita a portare a casa una riforma costituzionale che rivedesse l’architettura dello stato nel senso di più moderna e stabile. Il tentativo più interessante era quasi riuscito con la Commissione bicamerale di fine anni Novanta, ma naufragò a un passo dalla conclusione dei lavori sui veti incrociati tra centro-destra e centro-sinistra riguardo la giustizia. Due riforme, invece, sono state bocciate dagli elettori per via referendaria: quella del centro-destra nel 2006 e quella del centro-sinistra nel 2016.
Le formule proposte si sprecano: dal semi-presidenzialismo alla francese alla sfiducia costruttiva alla tedesca. In realtà, in pochi hanno posto l’accento sinora sul fatto che serva una legge elettorale efficiente e stabile ad accompagnare la revisione della Costituzione. Dal 1994, abbiamo votato con tre sistemi diversi: il Mattarellum (1994, 1996 e 2001), il Porcellum (2006, 2008 e 2013) e il Rosatellum (2018). Ogni maggioranza cerca di rivederla sulla base dei sondaggi e dei calcoli di partito, un po’ come avviene nelle democrazie di facciata del Terzo Mondo. Mettiamoci il cuore in pace: fino a quando il Parlamento sarà affollato da partiti personali, che riescono a ottenere seggi per effetto di leggi elettorali studiate appositamente per premiare anche le liste con percentuali da prefisso telefonico, non ci sarà mai stabilità di governo. E possiamo anche dimenticarci una buona governance dell’economia e delle istituzioni, in generale. Ogni legislatura si apre con l’auspicio che sia costituente, cioè che maggioranza e opposizione si mettano d’accordo per riscrivere insieme le regole del gioco. Finisce sempre con il rimpianto ipocrita di anni sprecati a litigare e con la consapevolezza che l’Italia continuerà a calciare il barattolo come nei precedenti 160 anni di storia.
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