Il conflitto tra Israele e Hamas sembra ben lontano da un cessate il fuoco. E il Paese si trova a far fronte a una crisi economica senza precedenti. Dal 7 ottobre sono stati lanciati dalla Striscia oltre 8mila missili. Il prezzo di ogni iron dome – il dispositivo per l’intercettazione dei missili – è di 50mila dollari: ad oggi sono stati spesi già 400 milioni solo per proteggere la nazione dalla pioggia di razzi. Ancora nulla rispetto agli esorbitanti costi dell’equipaggiamento bellico, a cui si aggiunge il costo di una significativa forza lavoro impegnata al fronte: 360mila riservisti, molti dei quali, per altro, provengono dal mondo dell’hi-tech, da sempre fiore all’occhiello della “Startup Nation”.
Secondo Dror Bin – Ceo della Israel Innovation Authority – dall’inizio della guerra il 40% delle aziende tecnologiche hanno incontrato estrema difficoltà nel raccogliere finanziamenti esteri, la maggior parte dei quali sono stati annullati o sospesi. Queste tendenze preoccupanti hanno spinto a lanciare un piano di emergenza di 25 milioni di dollari per fornire un’ancora di salvezza ad un gruppo di 100 start-up che non possono permettersi di collassare, poiché il settore tecnologico contribuisce al 18% del Pil israeliano e al 50% delle esportazioni.
Anche le gru che punteggiano lo skyline di Tel Aviv sono rimaste ferme per settimane. L’inattività in questo settore costa 37 milioni di dollari al giorno e la stragrande maggioranza degli operai edili erano palestinesi che attraversavano quotidianamente il confine da Gaza e il West Bank, a cui oggi l’accesso a Israele è negato per ragioni di sicurezza.
Altra industria, cruciale, che sarà penalizzata sul lungo periodo, quella del turismo. Gli hotel, completamente vuoti, sono stati trasformati in rifugio per il mezzo milione di sfollati – ulteriore costo per le casse dello Stato – costretti a lasciare le zone al confine con l’enclave e il Libano, costantemente sottoposte ad attacchi missilistici.
Queste aree erano il cuore dell’agricoltura del Paese: migliaia di ettari di raccolti distrutti a cui si aggiunge il problema della mancanza di manodopera, a causa della fuga di lavoratori stranieri, la maggioranza provenienti dall’Asia. In particolare, dalla Thailandia: 30.000 operai impegnati nel settore agricolo, quasi tutti fatti rimpatriare dal governo tailandese dopo che il gruppo terroristico ne ha uccisi 24 e ne ha presi in ostaggio 54, a cui si aggiungono 21 nella lista degli scomparsi.
Tutto questo non poteva che determinare un inesorabile crollo dello shekel – che aveva già registrato una tendenza al ribasso dall’inizio dell’anno, in concomitanza con la crisi interna dovuta alla riforma giudiziaria – oggi precipitato ulteriormente, raggiungendo il livello più basso dell’ultimo decennio. Per supportalo, la banca centrale ha stanziato 30 miliardi di dollari in valuta estera, che si aggiungeranno ad un deficit sempre più esorbitante.
Il costo di questa guerra sarà diverso da qualsiasi altra crisi economica Israele abbia mai sperimentato dalla sua fondazione.
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