Sono passati tre anni da quando il Regno Unito ha di fatto lasciato l’Unione Europea. Quasi otto dal referendum che nel 2016 certificò la volontà dei britannici di rompere con Bruxelles dopo 47 anni di “matrimonio”. Eppure, Oltremanica, si continua molto a discutere di Brexit. L’ultimo sondaggio commissionato dall’Observer alla società Opinium rivela che solo il 22% dei britannici pensa che l’addio all’Ue abbia avuto un impatto generale positivo per il Paese. Il 48%, quasi la metà degli intervistati, sostiene invece il contrario. La parte restante, semplicemente, non sa esprimersi. Non è la prima volta che le statistiche portano a galla la delusione della popolazione nei confronti della svolta che, così era stato promesso, avrebbe dovuto far esplodere le potenzialità britanniche a lungo strozzate dall’Ue. Di Brexit si parla spesso ormai come di “Bregret”, espressione coniata ad esprime il rimpianto (“regret”) associato all’uscita dal mercato unico.
Il terzo anniversario dello storico divorzio, circostanza che ha fatto da cornice all’ultima rilevazione, è coinciso con il ritorno del Regno Unito in Horizon Europe e Copernicus, i programmi europei di ricerca scientifica e osservazione della Terra dallo Spazio. Adesione saltata durante le aspre negoziazioni sullo status post Brexit dell’Irlanda del Nord condotte dall’allora premier Boris Johnson. Il ripristino della membership britannica, per la quale il governo dovrà versare 2,6 miliardi di euro all’anno, è interpretato da molti come il primo passo di un lento ma necessario riavvicinamento al continente.
La retorica che fomentò la Brexit delle origini è oggi leggermente sfumata. Sopravvivono però i suoi “padri”. Primo fra tutti Nigel Farage, ex leader del partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), che dopo un periodo di assenza potrebbe tornare sulla scena in vista delle elezioni politiche di fine anno (o di eventuali anticipi). Farage ha lasciato intendere che potrebbe unirsi ai Tory per risvegliare l’orgoglio conservatore, penalizzato dai fallimenti delle politiche migratorie, purché alla guida del partito non ci sia più il moderato Rishi Sunak. Secondo alcune indiscrezioni, l’attuale premier avrebbe intrattenuto conversazioni segrete con un alto falco della Brexit, Dominic Cummings, ex braccio destro di Johnson, su come affrontare le prossime elezioni. Tra i personaggi emersi illesi dalle macerie del passato c’è pure l’ex primo ministro David Cameron, seppellito politicamente dal referendum sulla Brexit che lui stesso aveva convocato, a novembre riabilitato da Sunak come titolare degli Esteri.
È difficile che la Brexit possa influenzare la prossima campagna elettorale. Lo stesso leader laburista, Keir Starmer, dato dalle previsioni come futuro primo ministro, ha più volte escluso l’idea di rimettere in discussione la Brexit. In un’intervista rilasciata a settembre al Financial Times ha dichiarato che intende, piuttosto, “rinegoziare un accordo commerciale migliore” con l’Ue quando, nel 2025, sarà tempo di revisionare quello al momento in vigore. A tenere banco saranno, tuttavia, i nodi amplificati dallo strappo come la crisi dell’economia e del sistema sanitario nazionale. In primo piano ci sarà l’immigrazione (ma questa volta non-Ue) e chissà quali altri derivati del populismo. Gli errori e la delusione, ha commentato Hugh Muir, editorialista del Guardian, “non possono rimanere al centro dell’attenzione, una certa dose di amnesia è vitale a progredire”. Ma, ha aggiunto, “la responsabilità e i fallimenti contano. Fare finta che non sia successo niente è sbagliato”.
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