La crisi del diritto è meritevole d’essere oggetto di riflessione e studio, in quanto il diritto è l’espressione più diretta dell’umanità dell’uomo poiché afferisce geneticamente alla persona, alle libertà, alle prerogative e ai poteri da quella esercitabili. Già questo di per sé potrebbe essere sufficiente per indagare a fondo il problema della crisi del diritto, poiché oggi esso appare tanto in crisi in quanto in crisi è la persona medesima, quest’ultima da intendersi sia in senso ristretto come dimensione teoretica, sia in senso esteso come dimensione antropologica, ma c’è, tuttavia, a ben guardare, cioè scandagliando a fondo negli abissi del problema, una seconda e ancor più delicata motivazione per continuare a riflettere intorno alla crisi del diritto.
Dal punto di vista storico-etimologico, infatti, il concetto di crisi è strettamente legato – per quanto strano possa sembrare di primo acchito – al concetto di diritto, poiché già nell’antica Grecia il termine crisi era munito di una forte connotazione giuridica, non soltanto perché proveniente dal verbo κρίνω (krino), che significa anche giudicare, che per l’appunto del diritto è azione fondante, ma poiché, come ha specificato, tra gli altri, Reinhart Koselleck, crisi rappresentava anche l’attività legislativa (che del resto comporta sempre una certa capacità di giudizio), nonché la partecipazione degli stessi cittadini all’interno delle magistrature della polis: da qui, con il tempo, il travaso del concetto di crisi dall’ambito strettamente giuridico a quello politico-sociologico oggi così di moda.
In sostanza, almeno nel suo fondamento primigenio, il concetto di crisi e quello di diritto quasi si identificano, come se non soltanto la crisi del diritto fosse inevitabile, tanto da essere congenita alla sua nascita, ma anche e soprattutto come se la crisi si possa intendere quale “diritto al diritto” o, ancor meglio, quale “diritto del diritto”. A questo punto, tuttavia, sorge spontaneo l’interrogativo: cosa è il “diritto del diritto”?
Il suddetto interrogativo può essere inteso in due diverse accezioni: come diritto del diritto a rimanere ciò che è; o, ancor meglio, come dovere del diritto a rimanere ciò che è. In entrambi i casi emerge la crisi del diritto, sia nel senso comune che nel senso più sopra delineato, poiché nel mondo odierno sempre più spesso il diritto viene inteso in modo differente alla sua propria natura, viene cioè frainteso. Il diritto, infatti, o è concepito oggi come mera formalizzazione dei comandi dell’autorità politica o dei desideri dei singoli cittadini all’interno del cosiddetto “sentire sociale”, oppure è ridotto a mero strumento di regolazione dei rapporti economici e – in casi più marginali – finanziari.
In entrambe le concezioni, il diritto viene svuotato della sua dimensione assiologica e reso mero instrumentum regni nelle mani di chi gestisce la res publica. Il diritto, così, si trasforma nel suo modo d’essere, poiché viene spinto nell’angusto angolo del formalismo, muta nel suo ruolo, poiché si tende ad insinuarlo in tutti gli aspetti della vita, anche quelli che per loro specifica e propria natura dovrebbero essergli estranei, e, infine, modifica il suo scopo, non traducendo più la giustizia di cui dovrebbe essere incarnazione, ma divenendo mera espressione di violenza legalizzata, formalmente legittima, ma sostanzialmente e irrimediabilmente illecita. Il dovere del diritto di conservare se stesso, in quell’occasione che si palesa essere la sua crisi, allora, è il dovere del diritto di mantenere inalterati la sua natura, il suo ruolo e la sua funzione in quanto espressione dell’umana razionalità e della naturale relazionalità dell’essere umano. Senza il costante riferimento, inteso all’un tempo quale fonte e orizzonte di senso, della persona, infatti, il diritto tradisce se stesso e, presto o tardi, si rivela quale mezzo ideale per la violazione dei diritti naturali e fondamentali dell’essere umano, come del resto, con ampia chiarezza, dimostra l’intera tragica storia giuridica del XX secolo.
La crisi attuale del diritto – nell’accezione comune con cui viene inteso il termine “crisi” – allora, consiste nell’attuale disancorarsi del diritto dal suo fondamento personale. Per invertire tale nefasta tendenza, quindi, diventa quanto mai necessario e improcrastinabile ricondurre la centralità della persona, sotto l’egida della ragione e della verità, all’interno del cuore dell’esperienza giuridica, dalla sua fase politica e nomo-genetica, attraverso quella applicativa dell’amministrazione dello Stato, fino a quella esecutiva della giurisdizione: soltanto così, infatti, si potrà evitare l’approvazione di leggi bizzarre o ingiuste, la gestione della cosa pubblica secondo il capriccio o l’arbitrio del burocrate, della classe politica o della maggioranza di turno non per servire il cittadino, ma per servirsi del medesimo, l’emanazione di sentenze espressione più del sentire ideologico del singolo magistrato che autentica manifestazione di giustizia.
Se tutto ciò non dovesse accadere, soprattutto senza che la classe dei giuristi riacquisti una tale consapevolezza, tanto a livello sovranazionale quanto a livello italiano, la crisi del diritto si trasformerebbe, nell’ottica del pensiero carneluttiano, nella sua inesorabile e inevitabile morte. Da qui, in conclusione, l’interrogativo fondamentale: sono davvero disposti i giuristi a concorrere, tramite la loro azione o tramite la loro inazione, alla morte del diritto e quindi della civiltà?
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