In Giappone furoreggiano gli ikumen, i “super papà”. Nelle pieghe di questa parola – che unisce il termine ikuji, “prendersi cura dei bambini” e ikemen, “uomo dall’aspetto attraente”, quello che da noi si chiamerebbe “figo” – c’è il tentativo, faticoso, lento, irto di difficoltà e ostacoli, da parte del Giappone di ridisegnare i confini della paternità. Perché un modo per uscire dalla voragine che rischia di inghiottire il Paese – il mix fatto di drammatica denatalità e invecchiamento della popolazione – potrebbe essere proprio quello di “schierare” i padri, spingendoli a una più attiva partecipazione alla vita domestica, generalmente affidata in Giappone alla cura esclusiva delle donne. Una scossa. Che deve fare i conti però con retaggi culturali atavici che investono tanto la famiglia giapponese – patriarcale – che la vita professionale – spesso totalizzante.
Come scrive il Japan Times se è vero che “non esiste una risposta semplice per risolvere l’enigma demografico” – un problema che tocca in profondità tutte le economie avanzate e che in alcuni Paesi asiatici, come la Corea del Sud e Taiwan, oltre allo stesso Giappone, tocca punte drammatiche – “incentivare la partecipazione degli uomini alla crescita dei figli è un imperativo non più eludibile”.
Il processo di trasformazione è già in atto. Il Codice Civile Meiji, del 1898, bollava le mogli come “incompetenti”: le donne non potevano lavorare senza il permesso dei mariti, non potevano stipulare contratti per l’acquisto o la vendita di terreni o prendere in prestito denaro. L’uomo, in pratica, godeva di un’autorità assoluta sulla famiglia. La situazione è cambiata con la Costituzione del dopoguerra che ha investito in profondità le strutture ancestrali della società giapponese, ha riconosciuto pari diritti alle donne e, grazie alle revisioni del codice civile, ha sradicato la maggior parte delle disposizioni patriarcali. La legge sugli standard lavorativi del 1947 ha poi imposto la parità di retribuzione per lo stesso lavoro.
Con il cambiamento delle aspettative sociali man mano che le famiglie giapponesi si assottigliano e sempre più donne entrano nel mondo del lavoro, il paesaggio “mentale” dei padri ha cambiato passo. Rispondendo a un sondaggio condotto dal Centro nazionale per la salute e lo sviluppo infantile, il 95,6% degli intervistati ha affermato che è naturale che le coppie condividano i lavori domestici e i doveri legati alla cura dei figli. Il 49,7% è convinto però che manchi un sistema e un ambiente che renda più facile per i padri crescere i figli, mentre il 33,1% ha affermato di non ottenere alcun riconoscimento per il “lavoro” svolto nella vita domestica e nella cura dei figli.
Secondo gli esperti, la grande battaglia deve svolgersi dentro un luogo bene definito: il posto di lavoro. È lì, nelle aziende, che resistono tabù, culture e abitudini difficili da scardinare. Secondo Manabu Tsukagoshi, uno dei direttori di Fathering Japan, organizzazione senza scopo di lucro che si prefigge di promuovere il “boom dell’ikumen” – “la cultura aziendalistica è molto più difficile da cambiare”. Per i giapponesi si tratta di un’adesione quasi totalizzante. Una “dedizione” che spinge alla competizione, risucchia le energie, deborda spesso dall’orario lavorativo, lasciando così ben poco tempo da vivere in famiglia. Anche su questo terreno però il cambiamento, anche se “sofferto”, avanza. Lo scorso anno il premier giapponese Fumio Kishida ha presentato l’obiettivo ambizioso di aumentare il numero di lavoratori che prendono il congedo di paternità al 50% entro il 2025 e all’85% entro il 2030. Uno scenario fin troppo ottimistico? La percentuale di uomini che usufruiscono del congedo è aumentata, anche se lentamente. Il rapporto, che era dello 0,12% nel 1996, ha superato il 5% nel 2017 e ha raggiunto il 17,13% nel 2022. Cosa rallenta l’adesione alle agevolazioni previste per i neo-papà? Ancora una volta le resistenze sono culturali. Sono ancora molti, troppi i padri che temono che prendersi una pausa dal lavoro significhi incappare nella disapprovazione dei loro capi o colleghi. Il congedo di paternità li esporrebbe a danni o rallentamenti alla carriera.
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