In un discorso televisivo, il presidente Miguel Diaz-Canel ha annunciato che porrà fine dopo oltre 25 anni al sistema dei tassi di cambio multipli in vigore a Cuba. Scomparirà il CUC, il peso convertibile, e l’unico peso che rimarrà in circolazione sarà scambiato a un tasso di 24 contro 1 dollaro. La riforma entrerà in vigore da gennaio e mira a combattere la crescente carenza di beni sull’isola, dovuta alla scarsa attrazione di valuta estera con cui importare i prodotti. Non sarà l’unico passo compiuto nella direzione di una maggiore liberalizzazione dell’economia. Gli investitori stranieri potranno detenere anche il 100% del capitale delle società che apriranno sull’isola, dal turismo alle biotecnologie, dalla farmaceutica al commercio all’ingrosso. Secondo il ministro del Commercio con l’estero, Rodrigo Malmierca, l’obiettivo sarebbe di attirare fino a 12 miliardi di dollari di investimenti potenziali.
Ad oggi, circolano due pesos: il CUP e il CUC. 1 CUC viene scambiato arbitrariamente su decisione del governo contro 24 CUP, ma il rapporto è di 1:1 tra società statali. Con l’eliminazione del CUC, di fatto il cambio contro il dollaro sprofonda a 1:24, dando vita a una maxi-svalutazione di circa il 96%. L’impatto della misura sarà durissimo sulla popolazione nel breve termine. Le aziende esportatrici se ne gioveranno, quelle importatrici subiranno un’esplosione dei costi, che scaricheranno sui consumatori. I prezzi al consumo si prevede che schizzeranno fino a 13 volte rispetto ai livelli attuali. Del resto, lo stesso governo si attende un esito simile, se è vero che ha annunciato che gli stipendi pubblici e le pensioni verranno aumentati fino a 5 volte.
Quello che non ha spiegato è che tali aumenti non terranno il passo con il costo della vita.
Transizione dolorosa, ma necessaria
A farne maggiormente le spese saranno i lavoratori del settore privato, cioè almeno circa 2 milioni di persone, i cui salari all’impatto rischiano di diventare insignificanti rispetto ai nuovi prezzi di beni e servizi, pur partendo da livelli superiori a quelli fissati nel settore pubblico. Per contro, le famiglie (e sono tantissime) che ricevono rimesse dall’estero dai parenti che lavorano fuori ne usciranno vincitrici. Ma non c’è alternativa. Di questo passo, Cuba farebbe la fine del Venezuela, dove un cambio tenuto spropositatamente alto ha negli anni prosciugato le riserve valutarie, costringendo il governo a tagliare sempre più le importazioni, anche di prodotti basilari, salvo successivamente svalutare il bolivar. Ne è conseguita l’iperinflazione e ancora oggi i prezzi a Caracas crescono al ritmo del 5/6.000% all’anno.
Quanto all’apertura agli investitori stranieri, si tratta di una mossa disperata per attrarre capitali. L’Avana ci aveva provato già con la creazione di una zona economica speciale nel distretto di Mariel. Tra il 2013 e il 2018 si attendeva di vedere affluire la media di 2,5 miliardi di dollari all’anno, cioè qualcosa come 12,5 miliardi in tutto. Ma a consuntivo, il flop registrato è stato totale: solo 1,19 miliardi dall’estero sono stati investiti. Con l’apertura alla totale proprietà straniera, il regime spera di avere maggiore fortuna. Del resto, nei mesi scorsi ha consentito l’apertura di decine di negozi sull’isola, in cui gli unici pagamenti possibili sono in dollari. La dollarizzazione è un modo per mettere le mani su una quantità crescente di valuta americana e per ridurre la carenza di beni. Saranno dolori per i cubani, il cui salario medio di 879 pesos al mese già oggi varrebbe meno della metà, in termini reali, rispetto al 1989, cioè a prima che il comunismo cadesse in tutto il blocco dell’Europa orientale.
Al nuovo cambio unico, equivarrebbe ad appena una trentina di euro al mese.
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