All’inizio degli anni 2000, gli esperti dissero che Pechino avrebbe preso Taiwan entro quel decennio. Poi, nel 2013, il ministero della Difesa di Taiwan dichiarò che il governo cinese avrebbe avuto la capacità di invadere l’isola entro il 2020. Nei giorni scorsi, l’ex generale Chiu Kuo-cheng, attuale ministro della Difesa taiwanese, si è presentato in parlamento a Taipei formulando una nuova previsione catastrofica: entro il 2025, la Cina sarà in grado di organizzare una “grande “invasione di Taiwan. Ma allora, Pechino invaderà Taiwan a breve? Forse sì. Ma anche no.
Come si è visto, almeno a giudicare dai proclami nefasti che si sono susseguiti da alcuni decenni a questa parte (e pure prima, a dir la verità, visto che Pechino ha minacciato l’isola fin da quando l’ex governo nazionalista è fuggito lì alla fine della guerra civile cinese nel 1949) la Cina si sarebbe già dovuta riprendere da un pezzo quella che considera da sempre come l’isola, o la provincia, “ribelle”, e anche parecchie volte, ma non è (ancora) successo. Come mai, si chiederanno in molti? Probabilmente perché – e ciò accade sempre quando si parla della Cina Comunista – bisogna fare attenzione a fare “la tara” tra i proclami verbali e quelli reali. Tra propaganda interna ed esterna e autentiche intenzioni. Tra la “guerra di parole” e la guerra vera. La solita attitudine cinese a dire le cose, ma poi a non farle o farle diversamente o solo in parte: insomma: “tre passi avanti, e due indietro”.
Questa cosa è accaduta di nuovo pochi giorni fa, quando le tensioni tra Cina e Taiwan sono andate aumentando sempre di più, con Pechino che inviava decine di aerei da guerra a scorrazzare sui cieli dell’isola e funzionari taiwanesi che cercavano di consolidare il sostegno internazionale attorno all’antica Formosa. Nei primi cinque giorni di ottobre, più di 150 aerei dell’aeronautica dell’esercito cinese di liberazione del popolo, il potente e benissimo armato PLA, sono entrati nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan, l’area che circonda l’isola, quella dove Taipei afferma che risponderà a qualsiasi incursione. Le manovre sono iniziate il 1° ottobre, festa nazionale cinese, che commemora la fondazione della Repubblica popolare e momento naturale per gli atti di supremazia militare. Soprattutto se simbolici, come è stato in quest’ultimo caso.
A “riscaldare gli animi” ci aveva messo del suo, non molto tempo, prima lo stesso Xi Jinping in persona quando, all’inizio di luglio, parlando dal palco di Piazza Tienanmen in occasione delle solenni celebrazioni per il centenario del Partito Comunista Cinese, di fonte a 70.000 persone aveva detto: “chi minaccia la Cina, verserà molto sangue”. Senza parlare, poi, della notizia circolata con un certo sgomento per il Mondo intero l’altro ieri, quando il Financial Times aveva rivelato un lancio segretissimo da parte di Pechino di un missile ipersonico balistico a lungo raggio, in grado di circumnavigare il globo, portando armamenti convenzionali o atomici e, quel che è peggio, contro il quale gli americani avevano candidamente ammesso di non essere in grado di fare nulla”. I cinesi poi hanno detto che non si è trattato di una nuova arma letale, ma del test di un “veicolo spaziale”, tra lo scetticismo generale: più che “tre passi indietro” questa volta è sembrata un presa per il naso globale da parte di Pechino…
Insomma, scenari da terza guerra mondiale? Per ora, per fortuna, soltanto sulla carta, visto che, nonostante la retorica delle sciabole e dei caccia militari, più meno tutti gli analisti concordano sul fatto che è assai improbabile che la Cina invada Taiwan in tempi brevi, con diversi esperti che dichiarano che la possibilità di invasione nei prossimi 12 mesi è “vicina allo zero”.
Ma quel che più convince – più che il parere degli esperti, i quali sono più o meno sempre gli stessi, ricordiamolo, che da anni esprimono previsioni funeste a giorni alterni – è l’atteggiamento dei taiwanesi. Malgrado tutto quel che è successo ultimamente sulla loro testa, la vita continua normalmente nella capitale di Taiwan, Taipei. La gente è in gran parte indifferente alla minaccia di invasione, e le regolari incursioni giustificano a malapena una menzione sulla prima pagina dei giornali. E tutto questo, malgrado un recente sondaggio condotto dal Centro di studi elettorali dell’Università Nazionale Chengchi di Taiwan certifichi che il sostegno all’“indipendenza” totale e formale di Taiwan, ovvero un futuro formalmente separato dalla Cina continentale, è al suo punto più alto da decenni, ed è più che raddoppiato dal 2018. Un campione di 4.717 persone intervistate ha rilevato che il 25,8% desidera muoversi con decisione verso l’indipendenza, mentre meno del 10% è a favore di una “unificazione” con la “Madrepatria” cinese. Ma soprattutto, da tutti i sondaggi – e parlando e ascoltando la gente di Taiwan – emerge chiaramente che l’opinione della stragrande maggioranza è mantenere lo status quo, almeno per ora.
Piuttosto che un preludio a un’invasione, del resto, l’aumento dei sorvoli cinesi è stato un simbolo della frustrazione di Pechino e un promemoria per Taiwan e gli Stati Uniti di non attraversare le “linee rosse” della Cina, quelle che potrebbero effettivamente innescare un’escalation militare da parte di Pechino. Sono due: una dichiarazione formale di indipendenza unilaterale o la decisione di schierare un gran numero di truppe statunitensi sull’isola. E per evitare questo rischio, Pechino ha aumentato la sua coercizione assertiva – ma anche esplicitamente aggressiva – nei confronti dell’”isola ribelle”, sulla quale non ha alcun interesse a forzare la mano nel senso di un’aggressione militare, ma piuttosto ha un grande interesse a mantenere la situazione “congelata” ancora per un (bel?) po’. Per quanto tempo? Beh, questo è davvero difficile dirlo. Anche perché il “pubblico” al quale si rivolge la retorica aggressiva di Pechino non è solo a Taiwan o negli Stati Uniti, ma è soprattutto dentro casa.
Facendo pressione su Taiwan, infatti, il presidente Xi Jinping sta cercando di rafforzare il suo sostegno personale all’interno del Partito Comunista, in vista del Congresso del 2022, quando terminerà il suo secondo mandato e Xi – è praticamente certo – verrà rieletto per un terzo mandato, e rimarrà presidente. E lo stesso Partito Comunista nel suo insieme, del resto, ha grandi priorità per il prossimo anno, priorità che un’invasione di Taiwan complicherebbe drammaticamente, e senza ombra di dubbio: un regolare svolgimento delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022 a febbraio e appunto l’imminente 20° congresso del Partito. Senza dimenticare che cercare di prendere con la forza l’isola sarebbe un’impresa estremamente costosa, anche per una superpotenza economicamente “muscolosa” come quella cinese, e dall’esito incerto. E poi, mentre la Cina fa pressioni su Taiwan in vari modi, i progressi militari che ha compiuto l’isola negli ultimi anni la mettono in una posizione più forte che mai. La presidente di Taiwan, la caparbia Tsai Ing-wen, al suo secondo mandato, ha descritto l’isola come in prima linea in una battaglia ideologica globale, scrivendo su Foreign Affairs questo mese che “se Taiwan dovesse cadere, le conseguenze sarebbero catastrofiche per la pace regionale e il sistema di alleanze democratiche”. Il suo messaggio è sempre stato: ‘Non daremo a Pechino un pretesto per un’azione militare, ma non ci arrenderemo in alcun modo’. Su sollecitazione di Washington, ha spinto per aumentare la spesa per la difesa e modernizzazione dell’esercito taiwanese, i cui risultati sono stati esposti questo mese in una parata militare per la Giornata nazionale di Taiwan che includeva missili locali, e dopo aver votato un significativo ulteriore aumento del budget per gli armamenti.
Per tutti questi buoni motivi, l’unica cosa che ha senso per Xi e i suoi è mirare a una soluzione pacifica allo stallo sullo stretto di Taiwan.
Il presidente americano Biden non ha apportato modifiche sostanziali alla politica di base portata avanti dal suo predecessore: sebbene gli Stati Uniti vendano armi difensive a Taiwan e mantengano legami non ufficiali, infatti, non supportano l’indipendenza di Taiwan e non si sono mai impegnati esplicitamente a difendere Taiwan dall’invasione cinese, ma persistono nella politica dell’ex presidente Donald Trump nell’approfondimento dei legami con l’isola, incluso il rilancio dei colloqui commerciali, il rafforzamento della cooperazione con la guardia costiera taiwanese e l’allentamento dei limiti ai contatti tra i funzionari del governo degli Stati Uniti e di Taiwan. Allo stesso tempo, Stati Uniti e Cina hanno continuato a litigare su questioni come Hong Kong, Xinjiang, diritti umani, sicurezza informatica e commercio, con i diplomatici dei due paesi che si sono presi “a pesci in faccia” pubblicamente durante i colloqui in Alaska a marzo. E sebbene ci siano segni di un disgelo nelle relazioni, incluso un vertice virtuale tra Biden e Xi previsto entro la fine dell’anno, tale progresso potrebbe essere compromesso proprio dal disaccordo su Taiwan.
L’attività militare della Cina vicino all’isola ”è destabilizzante, rischia di spingere Pechino a calcoli errati e ha il potenziale per minare la pace e la stabilità regionali”, ha detto il segretario di Stato Antony Blinken in una conferenza stampa questo mese. Mentre dal canto suo, in una conferenza stampa la scorsa settimana, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha affermato che gli Stati Uniti stanno “alimentano il confronto geopolitico” vendendo armi a Taiwan, facendo atterrare aerei militari statunitensi sull’isola e inviando navi da guerra attraverso lo stretto di Taiwan. “Gli Stati Uniti sono un piantagrane globale” ha aggiunto senza mezzi termini Zhao, “un sabotatore della pace e della stabilità regionali e una minaccia per la solidarietà e la cooperazione”.
Per colmo di ipocrisia, poi, non bisogna dimenticare che la maggior parte dei paesi oggi – Stati Uniti, molto significativamente, compresi – ha pieni legami diplomatici con la Cina anziché con Taiwan e non riconosce Taiwan come stato sovrano. E i vasti giochi di guerra tenuti da Washington all’inizio di quest’anno nell’area, se hanno potuto dimostrare che le forze americane sarebbero in grado di contrastare un’invasione cinese simulata di Taiwan nell’anno 2030, non potrebbero evitare di trasformare una eventuale vittoria in una classica vittoria di Pirro, con una massiccia perdita di vite umane. E chi, in America, e altrove nel Mondo, sarebbe pronto a “morire per Taiwan”?
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