Sono passati 100 giorni dalla chiusura al fotofinish del capitolo Brexit, dall’addio del Regno Unito all’Unione europea dopo 47 anni di storia diplomatica e commerciale comune, in conformità con la vittoria del leave al referendum del 2016.
E da più parti inizia a fioccare l’interrogativo: la fuoriuscita del Regno Unito dall’UE ha già sortito i primi effetti di là della Manica?
1. PIL in contrazione, ma c’è anche la pandemia
A ben vedere, la risposta è sì, ma con alcune annotazioni da integrare. Prendiamo il PIL: prima che venisse svelato l’esito referendario, il Tesoro britannico aveva stimato una contrazione del 3,6% entro due anni dal ricorso al meccanismo di recesso dell’articolo 50. Ma le cose non sono andate proprio così: al contrario, il PIL del Regno Unito è cresciuto del 3%, e anche il tasso di disoccupazione ha subito una flessione.
Ora, a cinque anni dal referendum, la situazione appare stravolta. Nel 2020 il Regno Unito ha registrato la contrazione del PIL più elevata tra i paesi del G7 – Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Stati Uniti e appunto UK – sfiorando il -10%. Ma qui arrivano le prime postille, perché è al momento impossibile stimare dove finiscano gli effetti Brexit e dove inizino quelli ben più marcati della pandemia. Comunque, il solo fatto che il Regno Unito si sia collocato tra Italia e Spagna è più di un indizio.
2. Costo della vita più alto, l’export crolla
C’è poi la questione del costo della vita, e qui gli avvertimenti pre-Brexit non erano mancati: la sterlina, in rapporto all’euro, è al momento sotto del 12% rispetto ai livelli del giorno del voto, ma ha comunque recuperato dal -18% registrato due anni dopo il referendum.
La caduta della sterlina ha avuto chiaramente degli effetti sull’economia britannica, visti i costi più elevati per le importazioni. E l’inflazione, che galoppava nei due anni dopo il voto oltre il target del 2% della Bank of England, è stata rallentata solo dalla pandemia.
A pagare il prezzo sono anche le società britanniche esportatrici, con l’export verso il vecchio continente che a gennaio è crollato del 41% rispetto al mese precedente. Flessione in doppia cifra che David Frost, negoziatore del segmento commerciale dell’accordo sulla Brexit, imputa perlopiù agli scossoni pandemici, ma che sembra quantomeno logica viste le naturali implicazioni del leave sul fronte export.
3. Lieve calo dell’occupazione nel settore finanziario
No, non c’è stato quel fuggi fuggi prospettato da PriceWaterHouseCoopers alla vigilia del voto, e di fatto solo 7.600 posizioni del settore finanziario sono state spostate nell’UE. “7.600 and counting” direbbero però gli inglesi, perché in assenza di un accordo tra Regno Unito e UE che dia la possibilità alle società finanziarie d’oltre Manica di accedere al mercato unico, l’emorragia potrebbe estendersi.
La City fa intanto i conti con la perdita di attrattività della sua piazza finanziaria: lo scorso febbraio, per la prima volta, la Borsa di Amsterdam ha superato il London Stock Exchange in termini di volume di scambi giornalieri, 9,2 miliardi di euro a 8,6.
4. Finanziamenti al servizio sanitario sotto le attese
Durante la campagna referendaria i sostenitori del leave avevano promesso che i 350 milioni di sterline erogati settimanalmente dal Regno Unito all’UE sarebbero stati dirottati verso il servizio sanitario britannico, l’NHS.
Un progetto ribadito anche dall’ex primo ministro Theresa May, che aveva anzi rivisto la cifra al rialzo fino a 394 milioni di sterline, ma dal 2023. L’obiettivo è lontano: in conformità con gli accordi siglati, il Regno Unito deve ancora riconoscere circa 20 miliardi di sterline all’UE nell’arco dei prossimi 7 anni, e gli effetti della Brexit sul PIL e sul gettito fiscale potrebbero erodere i risparmi derivanti dallo stop ai contributi a Bruxelles.
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