Matteo Scantamburlo è nato nel 2003 e risiede a Milano, dove studia Lettere Moderne all’Università Statale.
Appassionato di musica e arte, dal 2020 scrive su LibertyClub (link), sito di divulgazione culturale di cui è direttore e che gestisce insieme a cinque amici.
Il 26 marzo 2024, Matteo Scantamburlo ha pubblicato un interessante articolo “IL SUONO DELLA FEDE: QUANDO LA RELIGIONE ISPIRA LA MUSICA” (link)
Un suo recente lavoro lo ha dedicato alla Sardegna:
“DIVINA SARDEGNA” di Matteo Scantamburlo
1.
Luglio focoso e ventoso insiem’era
Quando io ed altri vivitor veloci
Lasciammo Milàn dopo la bufera
Che turbata l’avea con arie atroci
E ci approcciammo lesti alla Liguria
Ove i compagni eran giunti precoci.
Con fretta guidava Umberto e con furia
Per arrivare per tempo al battello
E fuggir degli altri calunnia e ingiuria,
Giunse così ad infilarsi snello
Nel grembo dell’acquatica vettura,
Traghettatrice verso il luogo bello.
Ivi riposar richiese bravura
Chè di spazio mancava la cabina
E danzar la facea la marea scura,
Ma giunse poi la luce mattutina
A accoglierci nell’olbiese cittade,
Ove dopo un buon dolce e una tazzina
Partimmo di nuovo le nostre strade.
Scoordinati furono gli arrivi
Poiché lenti son da incitar pietade
I trasporti sardi, ma ancora attivi
Giungemmo ove tenea Frate Gomita
Il giudicato, poi ai tetti estivi;
Lì Mattia sta con Guido, che le dita
scorre e l’ingegno impegna su un giornale.
Il venir nostro presto si fa gita
E del mar sardo assaporiamo il sale
In tal caletta, “Sorgente” vocata,
Sui cui scogli facilmente si sale
Per poter fare del corpo cascata;
Timoroso è Enrico, ma si getta,
E ahi lui questa non fu l’ultima fiata.
Il dopocena trascorse in fretta
Nel tabellon della città del bere,
La mattina dall’attesa fu stretta
Per l’om caro che dalle terre ibere
Venia, da noi accolto nel chiaro albergo
Che egli offerto aveva al nostro piacere.
Scherzava lui, imitando il local gergo,
E ci parló d’una spiaggia sabbiosa,
Licossi detta, sì voltammo il tergo
E ci incamminammo per via rocciosa
Fino a veder le sponde disiate.
Bel mar tempera la giornata afosa
E per il tuffo son individuate
Nuove rupi, non fa paura il flutto;
Saltiam, ma le teste son già voltate
A Enrico che zompa e dice: “mi butto!”.
Egli cade e grida com’om che soffre,
Con urlo tal che fa temere il brutto
Ma un grazioso nocchiere legno gli offre
E lo porta agonizzante sul lido.
Qui gran gente, che il mal altrui non soffre,
Di rosso vestita accorre al suo grido
E gli dice: “o t’alzi o voliam via”;
Ei prova ma infin cede: “a voi mi affido”.
Torna dunque chi già era giunto pria,
L’elicottero, che giù getta corde
Per raccòr Enri e portarlo in corsia;
E la salita è ammirata da orde
Di bagnanti che a noi si sono uniti
A guardar con volto misericorde
L’amico nostro da cui siam partiti.
2.
Tardo consumiamo il pasto e incerto,
Dal pensiero dell’avvenir condito,
Finché messagger non giunge Umberto
Con volto di chi triste nuova ha udito:
Frattura lombare, tale il verdetto
Che lascia il tavolo ammutolito
E il gruppo sul da farsi interdetto.
Enrico, certo, bisogna salvarlo
Dall’ospedal dove in vol fu diretto
Sì partiamo, in guisa di Ubaldo e Carlo,
La mattina io, Lorenzo e Guido.
Lungo è il viaggio, sì che per alleviarlo
A varia musica pronto mi affido,
Tal che pur se sassarese è la meta
Continentale è la rotta ove guido.
Simil canzone al ritorno allieta
Ciurma che il suo uomo ha recuperato
Seppur non nella forma sua consueta;
Diversa armatura ha infatti adornato
Il cavalier nostro, che ier cadeva
E oggi mal si muove, e per ciò è accorato.
Tornammo che il sole ancora splendeva
Ma le forze in noi erano assai scarse
Sì che facendoci col remo leva
Navigammo per varie rocce sparse
Nel mar che da casa è meno distante.
Del giorno le luci eran poi scomparse
Quando a noi ospiti si apriron le ante
Di così cara e accogliente dimora
Che nel rimembrarla mi fò sognante.
Agostino il savio e la sua signora,
che della costa tengon la corona
E sul paesin loro vegliano ognora
Come l’omonimo di lui su Ippona,
Ci accolgon con caldi cibi e parole
Sì che di Enri la sventura men stona.
Ma tal riman, ed egli se ne duole,
Che non può seguir gli altri nella danza
Da affrontar fino a vedere il sole,
Sì ch’io, nutrendo per ciò riluttanza,
Con lui rimango a casa e covo un piano
Chiedendo ad Agostino che distanza
Sta tra il paese e il suo colle sovrano.
Così son io di buon mattin tra i massi
E tra gli arbusti del verde isolano,
Cercando di godere con i passi
Le cose belle di quella natura,
Adagiandomi poi tra quei gran sassi
Nel mar che tanto è bello lì in Gallura.
Torno poi, e c’è chi si è già svegliato,
Chè già ci aspetta un’altra avventura:
Sul suolo sardo era quasi planato
L’aereo dell’ultimo cavaliere,
Andrea il nome, ma stambecco vocato,
Che giungeva a portarci il suo sapere.
Ignorava egli il brutto incidente
Finchè con gli occhi non poté vedere,
Ma, seppur medico, non potè niente
Contro il destin che era stato crudele.
3.
Raccolto è l’ultimo nostro tassello,
Più che matura ormai l’ora del giorno,
Sicché disposti come in un drappello
Per ogni macchina, che pare un forno,
Ci dirigiamo a un lido nuovo e bello.
Tuffati in acqua siam già tutti intorno
Per batter palla al numero divino,
Poi fuori a finger coi rami una porta
Verso cui tenta il tiro al volo Guidino
Fin quando la nostra partita è scorta
Da om che corre, seppur nel pelo albino.
Ei filosofo è, ma pure supporta
Per la locale squadra blu e rossa,
E del tempo non par sentir le usure
Sì che come un fanciul dal fondo crossa
Ma non sempre giunge alle nostre alture.
Se tal giornata dal saper fu mossa
Più mondane furono le avventure
Del dì seguente, che vagar ci vide
Per porti e spiagge intorno al litorale.
Rafael la prima, e il tempo ci sorride
Poiché è alto il sole e limpido il fondale
Mentre per l’opulenza sua ci irride
Porto Cervo, che fa parer normale
All’uomo ricco che barca vi appoggi
Spendere due cifre per quel legume
Che in Yemen fu, ma in ogni casa è oggi.
Ci diverte dunque tanto vanume
E il modo in cui qualunque cosa sfoggi
La ricchezza sua, come se per nume
Non avesse il luogo un Dio, ma il denaro.
Non del soldo ma di natura leggi
Sperimentiamo quando il mar men chiaro
Si fa, e burrascoso, sicché i palleggi
Nostri son tolti dal vento avversaro
Nella spiaggia dove abbiam posto i seggi.
Il giorno dopo ancor più mosso è il ponto
E onde genera che paion cavalli,
Ma certo non par questo a noi un affronto,
Chè ci gettiamo a lottar come galli.
Come uom che deve regolare un conto
Umberto e Mattia rompono gli stalli
Avvinghiandosi tra la spuma bianca,
E li seguono gli altri come sgherri,
Anche Andrea, a cui pur fa male l’anca.
Dopo aver deposto del gioco i ferri
Si riposa la compagnia, stanca,
E c’è chi nella sabbia si sotterri,
Ma i più tornano a casa a prepararsi
Per la gran cena che presto li attende.
Andiamo infatti ove i porci son arsi,
Da Paolino dico, che già ci tende
Piatti con salumi e formaggi sparsi
E insieme al gustoso cibo ci vende
La compagnia di candidi gattini
Che attorno al tavolo giran mansueti,
Mentre addentiam le carni dei suini
E riavvolgiamo questi giorni lieti
Che alla fine sono ormai vicini.
Ma gli animi nostri non sono cheti
Anzi cercano simbolico riscatto
Tornando nella spiaggia ove l’amico
Nostro conobbe il tanto forte impatto
Che schiena gli offese: povero Enrico!
Vediam nel luogo un insieme compatto
Di gente, e d’asciugamani un intrico,
Ma troviamo per noi un posto vacante
Dove incontriamo compagnia inattesa:
Un gruppo è infatti da noi non distante
Di spagnole, e al petto non han difesa.
C’è chi vuol parlar ma tace, esitante,
Chi ciò ignora e fa il bagno senza attesa
Ma soprattutto Lori, che conosce
Degli ispanici la lingua e il parlare,
Dunque senza timori nè angosce
Si unisce alle bagnanti a chiacchierare.
Non so dire quando caddero flosce
Le parole, poiché ero nel mare,
Ma al tramonto abbandonammo la spiaggia
E trovammo, nel tornare, un avviso
Che, come il Sole che le piante irraggia,
Illuminò della serata il viso.
È un uomo colui che sì ci incoraggia
A uscir di casa con passo deciso
E a salire sopra, fino al paese,
Nel locale che a noi è più vicino,
Dove a soddisfare le nostre attese,
C’è lui dietro la console: Raimondino!
Tre sole ballano da lui, coese,
Mentre noi scrutiamo dal tavolino
Decidendo come approcciare il ballo,
Quando Lorenzo ha l’illuminazione:
Possiam romper delle dame lo stallo
Muovendole a pietade ed emozione
Alla vista di Enrico nel suo imballo.
Il piano non riuscì alla perfezione
Ma per parlare ci fornì un pretesto
E si poterono aprire le danze,
Finchè le portaron via, troppo presto,
Due che di genitori avean sembianze,
Ma eran zii, e lasciaron Cernu mesto.
E seppur svanirono le speranze
La serata lasciò un sapor gradito
Andando a chiuder la villeggiatura
In modo divertente e colorito.
Così termina anche questa lettura
Che sembrava protrarsi all’infinito,
E non men lunga è stata la scrittura
Che si proponeva d’esser dantesca
Nello stile, ma ora, ad inchiostro corso,
Mi par piuttosto esser cavalleresca
Come già fu quella dell’anno scorso.
Quindi, sebbene assai io mi rincresca
Del ritardo ch’incontrai nel percorso
Considererete a buona ragione
Che è meglio colui che si fa attendere
Di chi mai arriva: come il gomone!
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