Tra il 2020 e il 2021 si registrano incrementi nei tassi di depressione, ansia e stress causati dalle eccessive ore di lavoro in molti Paesi. È l’effetto burnout. L’Organizzazione mondiale della sanità lo ha classificato per la prima volta nella lista delle sindromi e delle malattie, definendolo come uno stato di esaurimento sul piano fisico e mentale causato dall’eccessivo lavoro. Abbiamo raccolto alcune storie di chi lo ha vissuto e ora ha deciso di licenziarsi per tentare strade differenti, oppure sta approcciando uno stile di vita meno frenetico e chi invece ha trovato un ambiente ancora più massacrante.
Storie di persone in burnout
“Mi sentivo ipocrita a rimanere a lavorare in un posto soltanto per i soldi”. E così, spinta da questa motivazione, il 20 settembre scorso Aurora (nome di fantasia ndr) si è licenziata, lasciando il suo contratto a tempo indeterminato come marketing manager e abbracciando uno stile di vita più lento, con tanto di van per fare lunghe traversate in Andalusia, dove vive. Aurora è un esempio di quello che gli americani definiscono ‘the great resignation’ (‘la grande dimissione’), il fenomeno di fuga volontaria dal lavoro che, se negli Stati Uniti è molto diffuso, in Italia e in Europa sta prendendo ora piede.
A questo si aggiunge che tra il 2020 e il 2021 in molti Paesi si sono registrati incrementi nei tassi di depressione, ansia e stress causati dall’eccessivo lavoro. Semplicemente le persone non ce la fanno più e si licenziano. L’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato per la prima volta il ‘burnout’. A spiegarci cos’è sono due lavoratrici che lo hanno sperimentato in prima persona.
“Da quando ho lasciato il lavoro è sparito il mal di pancia”
“Erano due anni che stavo pensando di lasciare il lavoro, ma l’arrivo della pandemia mi ha frenata, racconta Serena, chi lascerebbe mai un posto fisso in un momento così incerto?”. Arrivato settembre però Serena, che lavorava a Madrid nella filiale spagnola di un’azienda di salumi italiana, si è licenziata. “La decisione non è stata facile, la parte economica era quella che mi spaventava di più, ovviamente. Ho deciso di farlo perché non mi sentivo più rappresentata dalla linea politica e dalla filosofia aziendale; oltre che ad avere idee lontane dai miei colleghi, con stili di vita diversi da miei. È ipocrisia stare in un posto solo per i soldi”, continua il racconto Serena, che tuttavia ammette di avere un po’ di ansia di quello che sarà il suo futuro da adesso in poi. “Non ho un lavoro, ma non lo sto cercando in maniera attiva. Sto facendo molto volontariato, mi sto dedicando alle cose che mi piacciono, come l’ecologismo e la tutela dell’ambiente. Devo capire ancora cosa voglio davvero fare, ma non mi pento della mia decisione, anche perché da quel giorno non ho più mal di pancia”, scherza.
“Mi sento tremendamente in colpa per ogni minuto in cui non ho lavorato”
Una delle incognite più grandi di chi lascia un lavoro sicuro per intraprendere una nuova strada è proprio l’incertezza di quello che si troverà altrove. Se nel caso di Serena i timori si fanno intensi quando i risparmi iniziano a calare, per Martina (nome di fantasia, ndr) invece il compromesso da accettare è quello di dover lavorare molto più del dovuto adesso, sperando che i suoi sforzi vengano ripagati in futuro dai datori di lavoro. Una sorta di auto ricatto. “È un lavoro in cui c’è molta competizione, al momento ho un contratto di borsa di studio soltanto per un anno e non vorrei apparire indisponente, perché è la carriera che vorrei fare”, spiega Martina. Anche lei, come Aurora, a settembre ha lasciato il suo vecchio lavoro come interior design in una multinazionale (per il quale comunque lavorava 40 ore a settimana per 600 euro al mese) per accettare un’ambita borsa di studio all’università di architettura. “Mi arrivano messaggi anche la domenica mattina. Il sabato mi dicono che, se voglio uscire la sera, è meglio stare a casa il pomeriggio per lavorare”, spiega raccontando la sua nuova routine lavorativa, fatta di orari estenuanti e richieste improvvise anche nei giorni di riposo. “Arrivo a lavoro alle 8.15 ed esco alle 19, torno a casa e mi rimetto a lavorare. Il weekend lavoro. Il fatto è che mi sento tremendamente in colpa per ogni minuto in cui non ho lavorato”, dice la ragazza, che da qualche settimana ha ricominciato a soffrire di un’orticaria molto pesante che le viene nei momenti di forte stress.
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