La blockchain spiegata bene

by • 5 novembre 2021 • TECNOLOGIA, ECONOMIA, In evidenzaCommenti disabilitati su La blockchain spiegata bene841

Ma cos’è la blockchain? Iniziamo col dire che è un registro di operazioni finanziarie (in particolare di criptovalute), che presenta caratteristiche peculiari. Nel mondo odierno, come posso provare di aver inviato 100 euro ad un’altra persona attraverso, ad esempio, bonifico bancario? La risposta è semplice: con il numero identificativo del bonifico rilasciato dalla mia banca. Allo stesso modo, come posso essere sicuro di aver ricevuto 100 euro? Semplicemente vedendoli contabilizzati sul mio conto corrente. Fidandomi quindi di quanto riportato dalla mia banca. Il sistema bancario è un sistema centralizzato (le informazioni sono in possesso alla mia banca), basato sulla fiducia da parte dei cittadini nei confronti delle banche, con eventuali dispute risolte da terze parti (come i tribunali). È anche un sistema dove le informazioni sono “private”: le informazioni del mio conto corrente sono solo a disposizione mia e della banca.

La blockchain è un registro di transazioni rivoluzionario:

è un sistema decentralizzato, cioè non esiste una singola entità che possiede l’informazione delle transazioni, ma tale informazione è pubblica ed è posseduta da tutti;

è un sistema che non richiede la presenza di una terza parte per risolvere eventuali dispute, dato che la blockchain è un software che contiene al suo interno un algoritmo che preserva le informazioni del registro – si parla di immutabilità della blockchain – e regola eventuali “dispute”, ovvero transazioni errate o tentativi di modificare vecchie operazioni vengono automaticamente bloccati;

è un sistema dove l’informazione è pubblica, ma protetta da crittografia, tramite la quale io posso provare di essere l’autore o il destinatario di una transazione, ma nessuno può risalire alla mia reale identità. Ogni utilizzatore è infatti noto pubblicamente tramite uno o più pseudonimi, ed è impossibile risalirne alla reale identità. Questo preserva la privacy degli utilizzatori ma è anche il motivo per cui le criptovalute su blockchain sono usate anche per operazioni illegali, quali la richiesta di riscatti in seguito a furti o criptazione di dati.

La prima blockchain è stata ideata e poi implementata da Satoshi Nakamoto (uno pseudonimo) nel 2009. Si tratta della blockchain del bitcoin, la più famosa criptovaluta, ma anche la prima criptovaluta basata sulla tecnologia blockchain. Ma cos’è il bitcoin? È una “moneta” digitale, la cui esistenza è legata all’affidabilità della tecnologia sottostante, che è appunto la blockchain. Infatti, il bitcoin (o meglio il satoshi, in quanto ogni bitcoin è suddiviso in 100 000 000 satoshi), in quanto digitale, non è altro che una sequenza di bit, un pezzo di codice, che non avrebbe alcun valore se non fosse possibile identificarne il possessore, o se fosse “semplice” per un hacker rubarne il possesso. Qui entra in gioco la blockchain: il possessore di un satoshi è l’utente il cui pseudonimo compare come destinatario nell’ultima transazione in cui quel satoshi ha cambiato proprietario.

A questo punto, apparirà chiaro che la sicurezza del registro delle transazioni, che altro non è che la blockchain, è il punto chiave. E qui entra in gioco l’idea di Satoshi Nakamoto. Per prima cosa la blockchain è un software: chiunque può scaricarlo dalla rete ed installarlo sul proprio pc, diventando un nodo della blockchain (l’unico avvertimento è che al momento servono più di 300GB di spazio disponibile). Le informazioni sulle transazioni sono registrate in alcuni blocchi della blockchain (oltre 700 000), ordinati in maniera cronologica, e non è possibile “staccarli” o cambiarne l’ordine. Ecco il perché del nome blockchain, ovvero catena di blocchi, e perché si parla di immutabilità della blockchain. Ogni nodo della blockchain memorizza tutti i blocchi: ad oggi si stima che siano almeno 10 000 i pc che hanno in memoria la blockchain di bitcoin, tenendola aggiornata, cioè memorizzando continuamente i blocchi contenenti le nuove transazioni, che si legano ai precedenti. Per queste ragioni si parla di database distribuito.

Senza entrare nei dettagli, Satoshi Nakamoto ha ideato la costruzione di un database distribuito tale che:

la costruzione dei nuovi blocchi viene fatta dai “miner”, i minatori che costruiscono i blocchi collezionando le nuove transazioni. Lo fanno risolvendo un problema computazionalmente complesso (proof of work), spendendo risorse in hardware ed energia, ma ricevendo in cambio una ricompensa in bitcoin;

una volta che un blocco viene creato, viene inviato a tutti i nodi della blockchain. Può succedere che due miner creino blocchi nuovi contemporaneamente. Questo produce una “fork” (biforcazione) della catena di blocchi, in quanto alcuni nodi ricevono il blocco del primo miner prima di quello del secondo, altri invece il viceversa. Siccome la blockchain deve essere unica, il software gestisce automaticamente queste situazioni, considerando solo la versione della blockchain memorizzata nel 50% più uno dei nodi o quella più lunga, cioè con più blocchi, e quindi eliminando automaticamente la vecchia. E la remunerazione viene data solo al miner che ha creato il blocco mantenuto.

La remunerazione dei minatori è il motivo principale per cui la blockchain di bitcoin è considerata immutabile, e quindi sicura: il minatore che crea un blocco oggi ottiene oltre 6 bitcoin, oggi pari a 250 000 dollari. Potete immaginare quanto questa remunerazione produca una “gara” fra i minatori nel riuscire a creare un blocco valido, e propagarlo all’intera rete prima di tutti gli altri competitor. Se un miner malevolo volesse, ad esempio, cancellare una vecchia transazione, contenuta in un vecchio blocco, dovrebbe “convincere” almeno il 50% più uno dei nodi che la sua versione della blockchain è quella giusta, scontrandosi con quella su cui molti miner stanno lavorando per aggiungervi nuovi blocchi… cosa possibile solo se costui è in possesso di una capacità hardware notevolmente superiore ai miner competitor. L’elevata remunerazione assicura quindi che ci sia un numero elevato di miner interessati a competere per creare un blocco, scoraggiandone altri ad agire disonestamente: se infatti un miner malevolo fosse in grado di “battere” gli altri miner, invece di cercare di corrompere la blockchain, potrebbe usare la sua tecnologia per creare blocchi validi, guadagnando, in modo onesto, l’elevata remunerazione.

Ma per quali applicazioni si può usare la blockchain al di fuori del “semplice” registro di transazioni? Un primo esempio è quello della “notarizzazione”. Ipotizziamo di voler prevedere il risultato di una partita di calcio, e di voler provare a chiunque che la previsione è stata fatta prima della partita: potrei scrivere sulla blockchain una transazione da me a me, anche di 0 bitcoin, scrivendo in un campo di testo libero (come se fosse lo spazio della causale di un bonifico) il risultato della partita. A questo punto posso provare i) di aver scritto la transazione – tramite prova crittografica, ii) che è stata scritta prima della partita, in quanto le transazioni sono tutte accompagnate da un timestamp, cioè da informazioni sull’esatto momento in cui la transazione viene effettuata. E l’immutabilità della blockchain garantisce la correttezza dell’informazione.

Come il bitcoin non è l’unica “moneta” digitale, così la sua blockchain non è l’unico tipo di blockchain: ne esistono molte altre, alcune simili a quella di bitcoin, altre con importanti differenze. Esempi sono ethereum e algorand, blockchain che permettono “smart contract”, cioè contratti intelligenti che permettono scambi di criptovalute in maniera automatica. Pensiamo ad uno smart contract di tipo assicurativo, ad esempio sui ritardi degli aerei, in grado di inviare il pagamento automaticamente nel caso in cui il nostro volo sia in ritardo: nessun reclamo da fare, nessun assicuratore da contattare, tutto fatto da un codice “smart”.

La blockchain non ha ancora mostrato tutte le sue potenzialità, ha ancora molte sfide da affrontare (sostenibilità, interoperabilità con altri sistemi, scalabilità a molte operazioni) per dimostrare di essere quella tecnologia “disruptive” in cui molto credono.

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