Il crollo della domanda, che nel secondo trimestre ha superato i 25 milioni di barili al giorno, si è portato dietro quello delle quotazioni, dato che l’offerta non si è ristretta della stessa entità. Anzi, in aprile l’Arabia Saudita scioccava il mercato, annunciando l’aumento della produzione contestualmente al taglio dei prezzi di vendita, un modo per mettere sotto pressione l’alleato russo da una parte e gli USA dall’altra, non volendo accollarsi per intero le perdite derivanti da una riduzione dell’offerta.
Dai 9,7 milioni di marzo, i barili al giorno estratti il mese successivo esplosero a 12 milioni, segnando un nuovo record storico. Questa sarebbe stata la capacità massima di Riad, che da anni sostiene di potere arrivare ad estrarre proprio fino a 12 milioni di barili al giorno. Già a maggio, però, ottenuto il risultato di coinvolgere il resto dell’OPEC e la Russia nel taglio dell’offerta, colpendo al contempo le compagnie petrolifere americane, abbassava la propria quota a poco meno di 8,5 milioni.
La reazione saudita
In agosto, essa sfiorava i 9 milioni, per cui oggi Aramco sta producendo a circa 750 mila barili al giorno in meno rispetto ai livelli pre-Covid.
Non pochi, ma nemmeno così tanti nel confronto internazionale. In effetti, nello stesso frangente temporale, la produzione negli USA è crollata di 2,2 milioni di barili al giorno rispetto al picco record dei 13,1 toccato tra fine febbraio e metà marzo. La Russia è scesa di 1,9 milioni di barili al giorno, risultando così la seconda economia che ha compiuto i maggiori sacrifici per adeguarsi ai livelli della domanda. -1,4 milioni per l’Iraq, mentre il Kuwait se l’è cavato con 500 mila barili al giorno in meno e l’Iran, al collasso economico per le sanzioni americane, ha registrato solamente -130 mila.
La strategia saudita ha dato i suoi frutti, non perché sia riuscita a riequilibrare il mercato petrolifero mondiale, ma almeno non ha addossato i costi alla sola Riad, a differenza di quanto accaduto dopo il 2014, quando al crollo delle quotazioni internazionali dovette reagire quasi in solitaria, sobbarcandosi gran parte dei tagli all’offerta e assistendo a comportamenti da “scrocconi” da parte degli alleati OPEC, nonché al prosieguo del boom dello “shale” americano.
L’impatto sull’economia saudita
L’impatto sull’economia del regno c’è stato, ma tutto sommato limitato. Le riserve valutarie sono scese di una cinquantina di miliardi di dollari, restando elevate, cioè a 448 miliardi. Il dato è molto importante per valutare le possibili conseguenze sulle vite dei sauditi, dato che il tasso di cambio tra rial e dollaro è fisso da 35 anni a 3,75. Il minore valore delle esportazioni si ripercuote, quindi, necessariamente in negativo sulle riserve e sulle entrate fiscali, ancora oggi largamente dipendenti dai proventi petroliferi.
A conferma del superamento della fase acuta della crisi con relativa resilienza, il mercato sovrano. I bond sauditi lungo la curva prezzano più alti dei livelli pre-Covid, con la scadenza più longeva in dollari nel gennaio 2050 e cedola 5,25% a offrire un rendimento del 2,85%, il doppio del Treasury di pari durata, ma pur sempre meno dei primi dell’anno. La scadenza in dollari a 1 anno, invece, si ferma allo 0,70%.
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