Biden vs Trump: chi vincerà le elezioni Usa 2020?
Mancano sette settimane e mezzo al 3 novembre: il giorno in cui l’America scoprirà se l’aspettano altri quattro anni di Donald Trump o un cambio di stile e politica con il democratico Joe Biden.
Finora la campagna elettorale è stata dominata da due questioni: la pandemia, che negli Stati Uniti ha mietuto oltre 190 mila vittime; e i disordini nelle città, cominciati a maggio con l’uccisione di George Floyd e mai sopiti fino alle nuove esplosioni a Portland e Kenosha.
I manuali di comunicazione politica però ci ricordano che sono pochi gli elettori che prestano attenzione alla campagna presidenziale prima di settembre. Questi ultimi giorni sono fondamentali: tutto può ancora succedere. Ci sono i dibattiti, tre tra i rivali per la presidenza, uno tra i vice Mike Pence e Kamala Harris, e ci potrebbe essere la famosa «October surprise», un evento che modifica il corso della gara.
Che succederebbe se la sorpresa fosse, come ha fatto capire in questi giorni Trump, il vaccino? Il punto debole del presidente, la gestione della crisi sanitaria, si trasformerebbe in un’arma spettacolare con la promessa di porre fine all’epidemia?
Joe Biden affronta lo strappo finale della campagna elettorale ancora in testa a livello nazionale. Secondo la media realizzata dal sito RealClearPolitics all’inizio di settembre, il candidato democratico mantiene un vantaggio del 7,2%. È vero che anche nel 2016 Trump fu sconfitto da Hillary Clinton nel voto popolare, ma poi vinse grazie ai meccanismi del collegio elettorale. Tuttavia quattro anni fa lo scarto risultò pari al 2,1%. Ora la distanza è quasi quattro volte più ampia. Eppure nel campo democratico aumentano inquietudini e preoccupazioni.
Trump non ha mai pensato di poter ottenere in assoluto più voti, fin dall’inizio ha impostato la sua campagna per bruciare il rivale nei tre Stati che nel 2016 gli consegnarono la Casa Bianca: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. E qui nelle ultime settimane la distanza si è ridotta a una media del 3%.
A maggio a Washington circolava una battuta: «Se i democratici perdono anche stavolta dovrebbero chiudere il partito e buttare via la chiave». Eravamo nel mezzo della pandemia, con il presidente che sbeffeggiava l’uso della mascherina e spingeva per riaprire l’economia. Il Paese sta pagando ora il conto: i contagiati sono 6 milioni, con una spaventosa accelerazione dal 17 al 31 agosto: un milione in più.
Ora Trump è riuscito a riaprire lo scontro: la base elettorale, minoritaria ma vincente nel 2016, appare di nuovo galvanizzata. I democratici possono arginare questa controffensiva solo se riusciranno a mobilitare tutti gli spezzoni sociali di riferimento: moderati, indipendenti, liberal, radical, neo-socialisti.
Trump si arrocca nel suo clan famigliare e in una cerchia sempre più ristretta di fedelissimi. Biden, più per necessità che per scelta, schiera una coalizione larga, composita e con diverse contraddizioni non risolte e, probabilmente, non risolvibili.
La stagione delle convention democratica e repubblicana è servita innanzitutto per definire la natura dei due schieramenti e quindi la prima distinzione netta tra le candidature. In via preliminare gli americani dovranno decidere se affidarsi a un leader forte, ma sempre più solo; o a un mediatore debole, ma più inclusivo.
Non a caso i democratici hanno trasformato il loro raduno in un prolungamento dell’impeachment: il processo non a una cultura o a una piattaforma politica, ma soltanto a Trump, commander in chief inadeguato e addirittura pericoloso per la democrazia. Tutto in nome di the people, il popolo.
E, simmetricamente, i repubblicani hanno risposto raffigurando Biden come «il cavallo di Troia» in cui si nascondono i veri nemici — vale a dire i socialisti come Bernie Sanders, Ilhan Omar o Alexandria Ocasio-Cortez — che vogliono distruggere il «Sogno americano», l’essenza del country, il Paese.
I progressisti si sono radunati il 17 agosto e hanno potuto giocare la prima mano, puntando sostanzialmente sulla fallimentare gestione della pandemia da parte di Trump e dell’amministrazione: non una polemica politica, ma una campagna contro l’apocalisse. «Noi siamo la luce che sconfiggerà questa stagione di tenebre», ha riassunto Biden. Nell’intervento di gran lunga più efficace dell’intera convention, Barack Obama ha voluto spaventare gli elettori: Trump non è solo un incapace. È una figura estranea all’identità americana, fissata nella Costituzione: «Se dovesse rivincere, raderà al suolo la nostra democrazia».
Trump era finito sott’acqua, almeno stando ai sondaggi. Ma la cronaca degli scontri tra alcune frange violente di dimostranti e la polizia, da Portland a Kenosha, lo ha riportato a galla. Il presidente o chi per lui (per esempio il capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows) hanno dimostrato capacità di riflessi, impostando la risposta ai democratici cambiando completamente tema. Ma quale pandemia, l’America brucia, assediata dai socialisti.
Lo slogan «law and order» fa parte del repertorio repubblicano più collaudato, da Richard Nixon a Ronald Reagan a Gerald Ford. E agisce da richiamo della foresta per i conservatori, i moderati e molti indecisi.
Così la convention repubblicana, dal 24 al 27 agosto, ribaltava lo schema studiato dai democratici: Trump non è la rovina del Paese, anzi è l’unico che può salvarlo. La vera minaccia non è il Covid-19, ma è l’attacco degli «anarchici, dei marxisti, dei vandali», spalleggiati da Black Lives Matter e subiti dal «debole Biden». Le convention ci consegnano una specie di resa dei conti tra due Americhe parallele e non comunicanti.
Incapace di governare con efficacia, ma abile nel comunicare e galvanizzare i suoi fedelissimi, Trump non sembra aver perso consensi rispetto al 2016. Ma non è nemmeno riuscito ad allargare la sua base elettorale: per lui potrebbe essere un problema nel duello con un Biden capace di recuperare frange democratiche che quattro anni fa non votarono per Hillary Clinton.
Dalla convention in poi, quindi, Trump cerca di individuare fasce di elettori moderati e indipendenti che potrebbero sostenerlo, magari perché spaventati dai disordini che scuotono varie città americane. Gli strateghi della sua campagna vedono buone possibilità soprattutto nei suburbs, i sobborghi delle città nei quali si sono formate comunità di borghesia benestante. Queste comunità delle città degli Stati conservatori Trump le aveva in gran parte conquistate già nel 2016. Nel 2020 vorrebbe aggiungere al voto dell’America rurale e di questi piccoli centri anche buona parte dei sobborghi ricchi delle grandi metropoli democratiche. È un elettorato destinato a diventare sempre più importante, anche perché con pandemia e telelavoro, molte famiglie preferiscono abbandonare il centro delle metropoli, da New York a San Francisco. Ma è anche un elettorato in parte fatto di professionisti e tecnologi con idee che tendono a sinistra.
Come convincerli a cambiare casacca? Trump punta sulla paura e sul portafoglio. Demonizza la campagna per togliere soldi e potere alle polizie, avvertendo gli abitanti dei ricchi sobborghi che con una presidenza Biden saranno meno protetti: e le loro ville unifamiliari, uno dei simboli dell’American dream, assai vulnerabili.
Il portafoglio, poi, Trump lo corteggia cancellando la politica di Obama che, per creare quartieri multietnici abitati da famiglie con diversi livelli di reddito, cercava di favorire la costruzione di abitazioni a buon mercato nei sobborghi ricchi. A chi lo accusa di puntare alla segregazione economica, Trump replica che residenti più poveri creerebbero problemi sociali e di sicurezza, ma, soprattutto, farebbero perdere valore agli immobili dei suburbs.
Molti politologi e demografi sostengono che nel lungo periodo il destino del partito repubblicano è segnato, visto che continua a presentarsi come la forza politica dei bianchi in una società sempre più multietnica nella quale un mosaico di minoranze sta diventando maggioranza. L’elezione di Obama ha, però, provocato una sorta di choc anafilattico nella destra americana: Donald Trump spinto alla Casa Bianca da un elettorato minoritario ma fortemente determinato. In teoria le possibilità del ripetersi di un simile scenario nel 2020 dovrebbero essere basse, anche perché in questi quattro anni il presidente-immobiliarista, malgoverno a parte, ha maltrattato le minoranze che stanno diventando maggioranza, soprattutto neri e ispanici.
Joe Biden, sostenuto dagli afroamericani, e Kamala Harris, che con le sue origini indiane e giamaicane è il sogno americano realizzato, dovrebbero essere in grado di sopravanzare l’avversario conservatore. E l’ex vice di Obama, che ha l’handicap di un’immagine alquanto senile, dovrebbe trarre vantaggio dall’avere nel ticket la Harris, volto confortante dell’America che verrà: multietnica e aperta al culto di fedi diverse (Kamala è una protestante battista cresciuta con l’induismo della madre che ora si confronta con l’ebraismo del marito).
Tutto questo può funzionare in tempi di società aperta. Va meno bene in un’epoca, come quella attuale, di contrapposizioni politiche radicali nella società e di integralismi religiosi. Una situazione della quale sul piano delle fedi si è avvantaggiato Trump: per lui voterà l’80% degli evangelici (più del 72% del 2016), ma sosterranno il presidente anche il 56% degli altri protestanti e il 54% dei cattolici, la religione di Joe Biden.
Il leader democratico ha dalla sua le minoranze. Ma mentre gli afroamericani sono schierati in massa con lui, il quadro degli ispanici è molto più frastagliato, con Trump che sembra in grado di conquistare circa un terzo dei consensi mentre il candidato democratico, benché in vantaggio, ha due handicap: il 60% che lo appoggia è meno del 67% di febbraio e del 73% di Hillary Clinton a questo punto della campagna 2016. Insomma Biden non scalda gli animi degli ispanici: loro si dicono in larga maggioranza ostili a Trump ma poi solo il 37% di quelli sentiti nei sondaggi è sicuro di andare a votare. Colpa anche del partito democratico che non ha investito sui latinos e che alla convention li ha trascurati: a quella del 2016 la Clinton schierò i fratelli Castro. A quella di due settimane fa non c’erano leader ispanici.
Secondo punto: il netto vantaggio di Biden tra i latinos a livello nazionale (circa 40 punti percentuali) si riduce di molto in alcuni Stati-chiave (come Arizona e North Carolina) nei quali questi voti possono essere decisivi. Vale soprattutto per la Florida dove cubani anti-castristi e altri ispanici, imprenditori di idee conservatrici, consentono a Trump di arrivare comunque a quota 41%: non troppo lontano dal 55% di Biden.
Si sono riversati nelle strade e sui social animando questa agitata estate americana per protestare contro la violenza della polizia e le disuguaglianze sociali. Ma i Millennial e la generazione Z, cresciuti tra guerre, recessioni, sparatorie nelle scuole, emergenze ambientali, andranno a votare? I leader democratici li stanno praticamente supplicando: Michelle Obama, nel suo discorso a tratti cupo alla convention democratica, ha detto di mobilitarsi «come se la vostra vita dipendesse da questo». E la collana che indossava, con la scritta VOTE, era un messaggio soprattutto a loro, agli under 30, che dal 1972, anno in cui l’età minima per votare è stata abbassata a diciotto anni, esercitano il loro diritto in percentuali molto inferiori a quelle dei cittadini più anziani.
Quest’anno, almeno sulla carta, elettoralmente hanno un peso maggiore che in passato: i più giovani tra loro, i «Gen Zers» (19-23) rappresenteranno il 10% dell’elettorato (erano il 4% nel 2016). Un’affluenza superiore al solito di questa generazione, la più eterogenea dal punto di vista razziale (55% bianchi e 45% non bianchi), e di quella dei Millennial (24-39), beneficerebbe il candidato democratico.
Il 77enne Biden ha però un problema con questi segmenti demografici che non è, come si potrebbe supporre, l’età: in fondo i beniamini dell’America del futuro sono spesso anzianotti, dall’idolo Bernie Sanders (78) al senatore 74enne Ed Markey, che una decina di giorni fa ha sconfitto nelle primarie del Massachusetts l’ultima giovane promessa del clan Kennedy, Joe. Il suo tallone d’Achille è l’essere percepito come «vecchio» politicamente: troppo centrista e cauto rispetto alle spinte ambientaliste ed egalitarie che infiammano ragazzi e ragazze. Non è detto che il discorso conciliante di Sanders alla convention sia stato sufficiente a convincere i suoi giovani e idealisti sostenitori ad «accontentarsi» di Biden (nei giorni del raduno dem circolava sui social un meme con la scritta «quello che hai ordinato» sopra la foto di BS e della giovane deputata-star Alexandria Ocasio-Cortez; e «quello che ti hanno servito», con l’immagine di Biden e Kamala Harris). Anche perché AOC continua e mantenere una certa distanza dal candidato democratico.
I sondaggi che danno a Biden un vantaggio del 25% tra gli elettori under 30 non bastano a rassicurare la sua campagna, dal momento che contemporaneamente registrano una grande freddezza nei confronti dell’ex vicepresidente. La mobilitazione, se ci sarà (la chiusura causa pandemia di molti campus, sede privilegiata per la registrazione degli studenti nelle liste elettorali, rappresenta un ostacolo), sarà soprattutto in chiave anti Trump, come è successo nelle midterm 2018. Votò allora il 26 per cento degli elettori nella fascia 18-29, un +16% rispetto al record negativo del 2014.
Il 2018 negli Stati Uniti è stato «l’anno delle donne», che si sono ribellate in massa alle molestie con il #MeToo e sono entrate in Congresso in numero record, 117, alle elezioni di metà mandato. Il 2020 — in cui ricorre il centenario del suffragio femminile in America — sarà invece «l’anno dell’elettrice donna», almeno secondo una ricerca appena pubblicata dalla Brookings Institution, think tank progressista di Washington. «L’elezione di quest’anno è animata dalla determinazione crescente di molte donne di ogni demografica a votare democratico ad ogni livello, indipendentemente dal sesso del candidato», scrivono gli autori Michael Hais e Morley Winograd. Il risultato delle urne, secondo gli analisti, dipenderà dalle cosiddette suburban women, le donne bianche dei sobborghi, un tempo abitati da una classe media bianca e conservatrice ma che ora si stanno rapidamente tingendo di blu democratico.
La partita si gioca su una diversa interpretazione del Sogno americano, e soprattutto del ruolo della donna: quella a cui si rivolgono i repubblicani è la casalinga spaventata dalle rivolte razziali e sociali, le «Karen» di mezza età diventate nel 2020 simbolo di razzismo e privilegio bianco; quella che cercano di conquistare i democratici è invece in carriera e impegnata socialmente. A questo archetipo si rifanno dunque i protagonisti della contesa elettorale. Da un lato c’è un presidente che, per sua stessa ammissione, ama «afferrare le donne per le parti intime», dall’altro Joe Biden non è stato scalfito dalle accuse di molestie e ha mantenuto la promessa di scegliere una donna, la senatrice californiana Kamala Harris, come sua vice nella corsa alla presidenza. Harris è la terza nella storia, dopo Geraldine Ferraro nel 1984 e Sarah Palin nel 2008, forse sarà la prima ad arrivare alla Casa Bianca, ma potrebbe non essere un fattore determinante. Un peso maggiore, invece, potrebbero averlo le first lady: al silenzio statuario ed elitario di Melania Trump, che svolge il suo compito senza entusiasmo, un passo indietro rispetto al presidente, si oppone l’attivismo politico dell’ex, Michelle Obama, e la tenacia da classe media dell’aspirante, Jill Biden.
Molti credono che, se Biden vincerà, sarà più per paura di Trump che per i propri meriti. Alleati e familiari possono sottoscrivere il messaggio o i valori dei candidati, come hanno fatto con efficacia Jill Biden e alcuni parenti di Donald. Ma conta poco. Secondo uno studio di Christopher Devine e Aaron Weinschenk, nemmeno Bill Clinton, un ex presidente e uno dei politici più talentuosi della nostra era, ha portato voti a Hillary nel 2016. «Se non ce la fece lui, forse nessuno può».
Si parla molto di Kamala Harris. Alcuni studiosi, come Rachel Bitecofer, sostengono che una vice non bianca motiverà gli elettori neri a votare per Biden: “Le ricerche dimostrano che la rabbia contro Trump non basta. Nel 2008 e 2012 la loro affluenza alle urne è aumentata grazie a Obama”. Altri notano che un candidato nero alla vicepresidenza è cosa ben diversa da un candidato nero alla presidenza: i vice (la multietnicità di Kamala o la religiosità di Mike Pence) storicamente non spostano molti voti, anche se scegliere politici “qualificati” può aiutare. È più probabile che i «surrogates» — i surrogati del candidato — possano danneggiarlo commettendo gaffe, contraddicendolo sull’agenda politica o aprendo polemiche che distraggono dal messaggio e dall’appello a votare. Harris, come la Speaker della Camera Nancy Pelosi o Alexandria Ocasio-Cortez, possono avere un forte impatto — positivo o negativo — anche perché sono i target preferiti dei repubblicani, che descrivono Biden come un debole che non controllerebbe davvero l’Amministrazione. Così il video girato all’interno di un parrucchiere a San Francisco, chiuso per Covid ma aperto apposta per Pelosi, che appare senza mascherina dopo aver criticato per mesi Trump, non è una buona notizia per Biden, come non lo sono gli screzi con l’ala progressista del partito. L’apatia dell’elettorato democratico è il suo peggior nemico.
I maggiori alleati di Trump sono la violenza che ha accompagnato alcune delle proteste razziali – da chiunque sia causata – e i social che usa senza scrupoli. In un’elezione in cui ci si aspetta il ricorso massiccio al voto per corrispondenza soprattutto da parte dei democratici, il presidente da un lato sostiene che è un sistema che facilita le «frodi», dall’altro può contare su amici come Louis DeJoy a capo dello US Postal Service. DeJoy, mega-finanziatore della sua campagna elettorale (la moglie è in lizza per l’ambasciata in Canada), ha rimosso macchinari per smistare la posta, tagliato le ore lavorative, creando ritardi nelle consegne, facendo temere che a novembre milioni di schede elettorali non arrivino in tempo per essere contate. Lui spiega che mancano i fondi; Trump minaccia il veto se il Congresso li approva.
Se a novembre l’uno o l’altro partito contestassero i risultati, la questione potrebbe finire davanti alla Corte Suprema, dove prevalgono (5 a 4) i conservatori. Il personaggio chiave qui è John Roberts: in dispute elettorali precedenti, i giudici si sono schierati su linee ideologiche, ma in tre casi recenti — sui diritti LGBT, l’aborto e i migranti — Roberts ha votato con i progressisti, lottando per tenere l’istituzione al di sopra della politica. Già nel 2000 il verdetto della Corte decise le elezioni presidenziali di George W. Bush contro Al Gore, ma oggi nel clima assai più polarizzato si teme che i perdenti non accettino la sconfitta e dichiarino l’elezione «rubata».
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