Il “Golden Power”, è un istituto introdotto in Italia nel 2012 dall’allora governo Monti e teso a difendere gli assets “strategici” nazionali dalle scalate ostili di società straniere, anche con sede in uno degli stati della stessa Unione Europea.
Ad oggi, la tutela riguarda le società della difesa, quelle attive nella sicurezza nazionale, delle telecomunicazioni, dell’energia e dei trasporti. Stando alle dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del consiglio, Riccardo Fraccaro, il governo punterebbe ad estenderla ai settori alimentare, farmaceutico, bancario, sanitario e assicurativo.
La “strategicità” del comparto alimentare, ma così come di quello sanitario e finanziario, sarebbe meno facilmente sostenibile. Almeno fino all’esplosione dell’emergenza Coronavirus.
La pandemia ha svelato alcune criticità possibili per il caso di interruzione della catena produttiva. Supponiamo che il cibo venduto in Italia venisse perlopiù trattato in Cina e che un evento imprevedibile come quello attuale non consentisse più alle aziende di esportarlo sul nostro territorio. Rimarremmo senza nulla da mangiare, una minaccia immediata alla nostra sopravvivenza. Lo stesso ragionamento lo si applichi alla farmaceutica e otterremmo la stessa risposta.
Verso una globalizzazione regionale
Tuttavia, di questo passo finiremmo per giustificare l’esigenza di mantenere l’”italianità” in ogni comparto produttivo. L’interpretazione estensiva della Golden Power, quindi, comporta il rischio di chiudere il mercato italiano, “scudandolo” rispetto al resto del mondo. In tempi normali, avremmo detto che si tratti di nazionalismo economico, senonché dobbiamo ammettere che la vicenda Coronavirus abbia creato un forte precedente a favore della svolta e, soprattutto, piaccia o meno ammetterlo, sembra che il futuro stia andando verso una “de-globalizzazione” a favore della creazione di macro-regioni produttive (Nord America, Europa, Asia, etc.).
La svolta sulla Golden Power s’inserirebbe a pieno titolo in quella internazionale in corso. Ma più che a salvaguardare le aziende alimentari o le piccole e medie imprese, il vero obiettivo del governo sarebbe di mettere sotto tutela le banche italiane. Perché? Da inizio anno, in borsa hanno perso mediamente il 40% e molte di esse trattano ormai a valori azionari pari a solo un quarto del rispettivo patrimonio netto. Chi riuscisse a comprarle, si porterebbe a casa un asset dal valore reale finanche quadruplo, un po’ come acquistare per 100.000 euro un immobile, sulle cui pareti interne risultano appesi quadri dal valore di mercato stimato in 400.000 euro.
E quale sarebbe il pericolo di un sistema bancario in mani straniere? Le nostre banche sono uscite malconce dalla crisi del 2008-’09, con una montagna di crediti deteriorati perlopiù smaltita solo per via di vendite forzate pretese dalla BCE e con contraccolpi molto pesanti sui bilanci. Per contro, detengono oltre 1.811 miliardi di liquidità dei clienti italiani, di cui 1.578 in forma di depositi. Inoltre, hanno a bilancio circa 400 miliardi di euro di BTp in controvalore. In altre parole, tutti i risparmi del sistema Italia di cui risultano in possesso ammontano a oltre il 100% del pil e sono creditori per circa un quinto dell’intero debito pubblico negoziabile sul mercato.
La questione banche
Per spiccioli, una grande banca straniera oggi si comprerebbe la stragrande maggioranza degli istituti italiani. Tutta MPS vale appena 1,3 miliardi, UBI 2,8, Mediobanca 4,7, BancoBPM 1,85, Credem 1,3. Per trovare valori a doppia cifra, dobbiamo arrivare ai 25 miliardi di Intesa Sanpaolo e ai 15,50 di Unicredit. Immaginate che una banca tedesca venga a fare shopping nello Stivale, rilevandone il controllo del tessuto bancario. Avrebbe modo di attingere alla enorme liquidità delle controllate per investirla laddove ritiene che sia più opportuno sulla base delle sue relazioni con il tessuto produttivo. In sintesi, prenderebbe i soldi dei risparmiatori italiani e li presterebbe alle imprese tedesche, che per storia e rapporti consolidati riterrebbe più sicure, in quanto conosciute.
Non facciamone una questione di nazionalità, quanto di praticità. Ma la conseguenza di questa perdita di italianità delle banche sarebbe la privazione per le piccole e medie imprese domestiche di quella liquidità necessaria per investire e persino per la gestione ordinaria. E con ogni probabilità si registrerebbe un disinvestimento progressivo anche riguardo al nostro debito pubblico, com’è emerso nei mesi scorsi con Unicredit, il cui amministratore delegato Jean-Pierr Mustier ha segnalato una crescente fuga dall’Italia, annunciando al contempo un forte taglio dei BTp a bilancio. Ci ritroveremmo, in sostanza, senza una delle principali fonti di domanda per il finanziamento del nostro debito sovrano.
Non crediate che all’estero sia semplice rilevare una banca. Sempre nei mesi scorsi, quando si era diffusa la voce che Unicredit fosse interessata ad acquisire il controllo di Commerzbank, il sistema politico e finanziario tedesco ha fatto quasi scudo contro l’ipotesi. E nemmeno in quel caso fu un problema di nazionalità, sulla quale semmai si specula agli occhi dell’opinione pubblica, quanto di opportunità. Le banche sono scrigni in cui spesso si custodiscono i segreti più inconfessabili di un sistema Paese.
Buona parte delle loro azioni è frutto di un “do ut des” esplicito o implicito con le istituzioni nazionali. Le Casse di risparmio tedesche devono prestare denaro senza problemi all’imprenditoria locale e in cambio ricevono dal governo federale la garanzia che nessuna entità straniera spulcerà mai nei loro bilanci, spesso traballanti. Gli istituti italiani comprano debito pubblico e ricevono tutela dallo stato contro eventuali “ingerenze” esterne sul piano regolamentare e/o concorrenziale. Il Golden Power è l’ultimo tassello di un modus operandi europeo ad oggi non codificato in leggi scritte, ma non per questo meno scrupolosamente osservato.
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